Coesione economico-sociale a che punto siamo? di Aldo Berlinguer per 9 Colonne

Uno dei tratti più qualificanti del nostro Paese è la sua frammentazione, storica e culturale, e la sua eterogeneità morfologica, la sua geodiversità. Non si tratta solo della proverbiale distinzione tra Nord e Sud. Abbiamo infatti, sul piano eminentemente fisico, aree pianeggianti e montane, ottomila chilometri di coste, fiumi e laghi in abbondanza e altrettante isole marittime, lacustri, lagunari e fluviali, oltre ad una ricchissima, impareggiabile biodiversità.  Se poi guardiamo a come il nostro Paese è stato ed è trasformato dall’uomo, si aggiungono ulteriori importanti divaricazioni. Anzitutto tra aree popolate ed aree pressoché disabitate, poi tra aree industrializzate e rurali. Poi ancora tra zone urbanizzate, centrali e periferiche, e zone cosiddette transfrontaliere. Insomma, un Paese estremamente frastagliato, il nostro, nel quale convivono realtà molto diverse tra loro, con grandi differenze sul piano demografico, delle infrastrutture, dello sviluppo culturale, economico e sociale. Un Paese, dunque, tutt’altro che coeso, le cui diverse condizioni di competitività rendono disomogeneo il grado di sviluppo e rallentano non poco il suo avanzamento socioeconomico complessivo.

A livello interno, sono molteplici le iniziative normative che hanno tentato di fotografare le divaricazioni territoriali italiane per poter apportare elementi di perequazione. Tra queste, spicca la Strategia Nazionale delle Aree Interne (SNAI) mediante la quale si è tentato di individuare tutte le zone cosiddette periferiche sulla base di misurazioni spaziotemporali della loro distanza dai centri di erogazione dei servizi essenziali.

Si è però pensato di legiferare anche sulle zone montane, su quelle transfrontaliere e su quelle insulari, con, tra l’altro, la (re)introduzione, all’articolo 119, 6 comma della Costituzione, del principio di insularità. La politica di coesione ha anche assunto la forma di Zona economica speciale (Zes); anzi, di più, Zes che, solo da ultimo, sono state unificate in una Zona unica per l’intero Mezzogiorno. Si è così tornati ad utilizzare una macrocategoria che fino al 2001 aveva anche trovato riconoscimento in Costituzione. E poi, con la riforma del Titolo quinto, è stata espunta.
Insomma, la politica di coesione economico sociale è stata implementata attraverso una legislazione particellare, per settori, che non ha saputo cogliere la complessità del quadro.  Anzi, si è dato luogo ad inevitabili sovrapposizioni ed ambiziosi rimandi, al fine di assicurare, specie alle zone con morfologica complessa, le adeguate forme di tutela e valorizzazione. Bastino alcuni esempi.
Nel 2000, l’articolo 29 del Testo unico degli enti locali (D.lgs. 18 agosto 2000, n. 267, TUEL), ha previsto che: «In ciascuna isola o arcipelago di isole, ad eccezione della Sicilia e della Sardegna, ove esistono più comuni può essere istituita, dai comuni interessati, la comunità isolana o dell’arcipelago, cui si estendono le norme sulle comunità montane». Si è quindi ritenuto che le isole, in virtù della morfologia che le caratterizza, possano essere assimilate, quanto ad organi di governo locale, alle comunità montane.
Nel 2022 la legge ha qualificato le isole minori come settantatreesima area interna del Paese ai sensi della SNAI. Ci si è infatti accorti che anche le isole rappresentano aree ultraperiferiche non potendo, nella più parte dei casi, contare su centri di erogazione dei servizi essenziali a breve distanza.
Da ultimo, con la riforma delle ZES, è stata inserita, all’interno del piano strategico della Zes-Sud, una sezione speciale dedicata alle isole Sicilia e Sardegna, le quali vengono dunque ricomprese nella macrocategoria del Mezzogiorno pur mantenendo una qualche, non meglio precisata specificità. Non si è invece varata una legislazione organica che, previa mappatura delle molteplici peculiarità territoriali che caratterizzano il nostro Paese, possa riconoscere a ciascun territorio una risposta normativa adeguata alle proprie caratteristiche specifiche, tenendo in debito conto che alcuni territori assumono in sé varie e diverse caratteristiche (isole montuose, isole urbane, isole transfrontaliere, ecc.).
Non siamo i soli a vantare una situazione così complessa, atteso che anche in altri paesi dell’Unione europea non mancano le aree meno progredite e periferiche. Non è un caso che l’articolo 174 del Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea rivolga, al terzo comma: «un’attenzione particolare (…) alle zone rurali, alle zone interessate da transizione industriale e alle regioni che presentano gravi e permanenti svantaggi naturali o demografici, quali le regioni più settentrionali con bassissima densità demografica e le regioni insulari, transfrontaliere e di montagna». Com’è noto, si tratta di una norma programmatica che ben scarsa applicazione ha avuto da parte della Commissione Europea, specie a fronte dell’adozione, forse per ragioni di praticità, di un criterio univoco, come quello del PIL pro capite, per individuare le regioni destinatarie della politica di coesione economica, sociale e territoriale
Più precisamente, il parametro del 75% della media del PIL pro capite, a livello europeo, è divenuto lo spartiacque della politica di coesione, con l’ovvia conseguenza di capovolgere il rapporto tra causa ed effetti per individuare così, partendo da questi ultimi, i destinatari delle misure di perequazione. Non si affronta dunque il tema delle cause che hanno portato ad una riduzione così significativa del PIL pro capite, si preferisce piuttosto tentare di rimuoverne gli effetti, attraverso la distribuzione di aiuti utili a riportare il PIL al di sopra della soglia individuata. Eppure la norma (art.174 TFUE), per quanto generica, è chiara: alcuni territori debbono essere maggiormente attenzionati rispetto ad altri. Perché allora non pensare di individuare, in Italia, tutte le zone che la normativa europea qualifica come prioritariamente destinatarie di misure perequative che assicurino la coesione economica, sociale e territoriale?
Le aree interne e quelle insulari rappresentano la superficie largamente maggioritaria del nostro Paese; esse evidenziano problemi, come spopolamento, abbandono, rarefazione dei presidi pubblici e privati che, trascurati da troppo tempo, si sono molto acuiti ed esigono analisi e proposte ormai indifferibili. Ai predetti problemi si aggiunge inoltre una difficoltà delle pubbliche amministrazioni locali nel progettare investimenti, portare a termine le procedure e spendere i contributi stanziati. Pertanto, la consueta tendenza a chiedere sempre maggiori fondi non sembra poter promuovere il riscatto socioeconomico di cui questi territori hanno estremo bisogno. Piuttosto, occorrerebbe fare in modo che le misure perequative raggiungano direttamente gli utenti finali, cioè famiglie e imprese, mettendole in grado di radicarsi (o semplicemente non lasciare i territori di provenienza) e prosperare. Ciò risulta possibile solo attraverso una adeguata riduzione della pressione fiscale che avvenga in misura proporzionata agli indici di ritardo di sviluppo che sono menzionati dalla stessa normativa europea.
In buona sostanza, occorre dare diretta applicazione all’articolo 174  TFUE, riconoscendo una riduzione percentuale della pressione fiscale nazionale ai territori che evidenziano una o più criticità morfologiche, demografiche o socioeconomiche.

di Aldo Berlinguer, Presidente dell’Osservatorio Insularità ed aree interne dell’Eurispes

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