AGROMAFIE

2°Rapporto sui crimini agroalimentari in Italia

Introduzione di Gian Maria Fara, Presidente del’Eurispes

 

Dall’Italian sounding all’Italian laundering

L’appetito delle mafie

A fronte di una tangibile centralità dei temi legati al cibo ed all’alimentazione nel dibattito mediatico, negli interessi di fasce eterogenee della popolazione, nella formazione di nuove tendenze culturali, ma anche nei comportamenti di consumo in tempi di crisi e nella percezione nazionale ed internazionale del Made in Italy, a livello istituzionale, l’agricoltura continua a rivestire in questi anni il ruolo della Cenerentola.

Nel dibattito politico, occuparsi di alimentazione, ambiente, territorio, agricoltura sembra in molti casi un impegno accessorio, piuttosto che dovuto ad uno dei più grandi tesori del nostro Paese. Eppure, la gestione delle questioni riguardanti l’agricoltura si riverbera sul territorio, sul turismo, sulla salute, sull’ecologia, sull’economia in generale. Tutti àmbiti connessi più o meno direttamente con cibo ed agricoltura.

Per questa ragione una politica sul tema dovrebbe essere interdisciplinare. Attualmente, al contrario, Ministeri diversi intervengono su aspetti parziali della questione, prendendo talvolta decisioni inconciliabili tra loro.

Da anni viene proposta da più parti l’istituzione di un Ministero dell’Alimentazione con competenze agricole e forestali, energetiche, ambientali, ma anche economiche, commerciali, educative, senza che questo appello trovi reale ascolto. Così come occorrerebbe comprendere l’importanza della formazione degli stessi magistrati, spesso impegnati nella lotta alle attività di penetrazione delle organizzazioni criminali nel settore agroalimentare senza una specifica e approfondita esperienza. Tanto è confusa e contraddittoria l’azione dello Stato tanto è viva e mirata quella delle organizzazioni criminali.

Queste non hanno mai trascurato il settore alimentare ed oggi più che mai appaiono lungimiranti nel coglierne la centralità e le immense potenzialità di guadagno. È peculiarità del moderno crimine organizzato estendere con approccio imprenditoriale il proprio controllo dell’economia invadendo i comparti che si dimostrano strategici ed emergenti, come è appunto quello dell’agroalimentare. La conquista di una fetta importante di questo settore da parte delle organizzazioni mafiose rientra quindi nel processo, osservato in questi anni, di consolidamento come holding finanziaria attiva praticamente in tutti gli àmbiti dell’economia.

In questa opera di infiltrazione le mafie stanno approfittando della crisi per penetrare anche nell’imprenditoria legale, visto che quello dell’agroalimentare rimane un comparto vivo, a differenza di altri, perché del cibo, anche in tempi di difficoltà, nessuno potrà fare a meno quali che siano le circostanze e indipendentemente dalle congiunture economiche. Controllano in molti territori la distribuzione e talvolta anche la produzione del latte, della carne, della mozzarella, del caffè, dello zucchero, dell’acqua minerale, della farina, del pane clandestino, del burro e, soprattutto, della frutta e della verdura.

Potendo contare costantemente su una larghissima ed immediata disponibilità di capitali e sulla capacità di condizionamento, quando non di intimidazione, degli stessi organi preposti alle autorizzazioni ed ai controlli, spesso si sostituiscono alla stessa imprenditoria legale. Con i classici strumenti dell’estorsione e dell’intimidazione impongono la vendita di determinate marche e determinati prodotti agli esercizi commerciali. Approfittando della crisi economica, delle restrizioni nella concessione del credito alle aziende, rilevano direttamente imprese ed attività commerciali. Sono almeno 5.000 i locali di ristorazione in Italia direttamente in mano alla criminalità organizzata (bar, ristoranti, pizzerie), nella maggioranza dei casi intestati a prestanome. Questi esercizi non garantiscono solo profitti diretti, ma vengono utilizzati anche come centrali sul territorio per il riciclaggio del denaro sporco. In alcuni casi, affiliati dei clan rappresentano specifici marchi alimentari la cui commercializzazione impongono nella loro zona di influenza.

L’attività mafiosa esprime una vasta gamma di reati: usura, racket estorsivo, furti di attrezzature e mezzi agricoli, abigeato, macellazioni clandestine, danneggiamento delle colture, contraffazione e agropirateria, abusivismo edilizio, saccheggio del patrimonio boschivo, caporalato, truffe ai danni dell’Unione europea. Si stima che il volume d’affari complessivo dell’agromafia sia quantificabile in circa 14 miliardi di euro: solo due anni fa questa cifra si attestava intorno ai 12,5 miliardi.

L’Osservatorio Flai Cgil contro le agromafie e il caporalato denuncia come su 1.708 aziende confiscate alle mafie oltre una novantina siano attive in àmbito agricolo; degli 11.238 beni confiscati, ben 2.500 sono terreni con destinazione agricola.

A ciò si aggiunge il fatto che ogni anno l’Unione europea eroga all’Italia 7 miliardi di euro per il sostegno all’agricoltura, una cifra che non può non sollecitare l’appetito mafioso. Come recentemente denunciato dalla Guardia di Finanza, che ha attivato controlli sul corretto funzionamento del sistema delle erogazioni pubbliche in agricoltura, è ormai evidente il ruolo esercitato dalle organizzazioni criminali sempre più attive sul fronte delle truffe e dell’indebita percezione di contributi comunitari destinati agli operatori del settore.

Le organizzazioni mafiose sono consapevoli che si tratta di un settore che garantisce guadagni diffusi e costanti nel tempo con scarsissimi rischi. Ma ciò è possibile soprattutto perché le sanzioni penali previste per questo tipo di reati continuano ad essere del tutto insufficienti e comunque non adeguate alla gravità dei fatti. Il nostro sistema legislativo protegge meglio il capitale economico che la salute degli individui, poiché nell’incontro tra diritto germanico e diritto romano sembra aver prevalso il primo, che puniva con maggiore severità i reati contro il patrimonio piuttosto che quelli contro la persona.

Inoltre, a parte la scarsa incisività delle misure e sanzioni, quella che sembra silenziosamente affermarsi è una vera e propria depenalizzazione strisciante dei reati ambientali e di quelli legati alla tutela della salute pubblica.

Grazie a questa fragilità del sistema legislativo italiano ed a queste carenze sul fronte della repressione, le mafie stanno imponendo il proprio controllo sulla produzione, il trasporto e la vendita di prodotti alimentari.

Mettendo le mani sul comparto alimentare, le mafie hanno inoltre la possibilità di affermare il proprio controllo sul territorio. Non solo si appropriano di vasti settori dell’agroalimentare e dei guadagni che ne derivano, distruggendo la concorrenza ed il libero mercato legale e soffocando l’imprenditoria onesta, ma compromettono in modo gravissimo la qualità e la sicurezza dei prodotti, con l’effetto indiretto di minare profondamente l’immagine dei prodotti italiani ed il valore del marchio Made in Italy. Le organizzazioni, quando operano direttamente o controllano indirettamente le aziende, abbassano infatti in maniera sistematica la qualità delle produzioni sotto il limite di sicurezza pur di massimizzare i profitti.

Dall’Italian sounding all’Italian laundering

Il cibo insomma come nuova frontiera dell’arricchimento mafioso che sviluppa nuove e continue forme di occupazione della filiera alimentare. Un business che vede nuovi protagonisti che via via sostituiscono quelli tradizionali, espressione di falsi, sofisticazioni e truffe di dimensioni locali e spesso artigianali.

Ormai al grande affare del cibo concorrono nuovi attori capaci di impostare un vero e proprio piano industriale, di operare sui mercati finanziari e gestire i rapporti col sistema bancario e con i grandi buyer, di svolgere attività di lobbying, di orientare scelte e decisioni politiche, di condizionare l’attività stessa di prevenzione e repressione delle Forze dell’ordine, di vanificare, attraverso impercettibili modifiche nell’etichettamento di un prodotto, anni di battaglie per la trasparenza e la tutela della qualità.

È la nuova mafia dei colletti bianchi, che orienta, smista, gestisce, dispone spesso a danno degli interessi nazionali in spregio alle vocazioni e alle attese dei territori e di quegli operatori che si ostinano a considerare la produzione di cibo sano e genuino una vera e propria missione.

Nel primo Rapporto sulle agromafie avevamo quantificato in 60 miliardi di euro l’anno il business dell’Italian sounding, ovvero il fenomeno della imitazione e falsificazione dei prodotti italiani operate da aziende straniere o anche spesso da aziende italiane che, attraverso la delocalizzazione e l’utilizzo di materie prime “altre”, sfruttano con richiami semantici e visivi il brand italiano causando enormi danni alla nostra produzione agro-alimentare, soprattutto con l’introduzione nei mercati internazionali di prodotti di scarsa, quando non infima, qualità.

Il fenomeno dell’Italian sounding registra ora una ulteriore sofisticata evoluzione: non si investe più solamente sulla creazione all’estero di pseudo-aziende che imitino i nostri prodotti, ma si acquisiscono direttamente antichi e prestigiosi marchi legati alla storia e alla cultura dei nostri territori, li si svuota dei contenuti di sapienza, di conoscenza, di tradizione, di qualità e attraverso di essi si veicolano e si commercializzano produzioni dall’origine incerta, ambigua e spesso pericolosa, così come spesso incerta, ambigua e pericolosa è la stessa provenienza dei capitali impiegati nelle acquisizioni.

Siamo passati dall’Italian sounding all’Italian laundering con pezzi interi della nostra economia ormai utilizzati per il lavaggio del denaro sporco. Basterebbe, per rendersene conto, pensare ai diversi e spesso non del tutto comprensibili passaggi di mano nel controllo di importanti aziende. Prima comprate, poi rivendute, poi ancora ricomprate. Troppi giri e troppe alchimie per non lasciarsi prendere dall’ombra del sospetto.

All’interno di un sistema finanziario globalizzato diventa sempre più arduo ricostruire l’origine e i percorsi dei capitali impiegati così come dei vari interessi ad essi riconducibili. È certo però che questi interessi, il più delle volte, non corrispondano a vere vocazioni imprenditoriali, ma siano organizzati secondo la logica del massimo sfruttamento e del massimo rendimento al minor costo possibile attraverso una produzione di massa nella quale la qualità ha un posto assolutamente irrilevante.

Accade così che, dietro la facciata dei marchi legati al nostro immaginario collettivo, si celino contenuti raccattati in giro per il mondo, conservati e trattati in spregio alle più elementari norme di sicurezza, rettificati, aggiustati, corretti, insomma sofisticati sino a raggiungere una minima somiglianza con quelli che un tempo erano stati i prodotti originali. Ciò vale in particolar modo per l’olio, i pomodori inscatolati, le produzioni lattiero-casearie e per tanti altri alimenti il cui elenco si allunga ogni giorno di più. Per non parlare del business che si è sviluppato nella produzione di mangimi per gli animali nella cui preparazione vengono utilizzati ogni sorta di rifiuti, di scarti di lavorazione attraverso processi di vera e propria trasformazione chimica. Stessa sorte tocca spesso, così come diverse indagini della magistratura confermano, ai cibi destinati al consumo quotidiano sulle nostre tavole: cibi scaduti da anni, adulterati e immessi nei principali circuiti di vendita senza nessuno scrupolo e nessun rispetto per la salute dei consumatori.

Le mafie, è noto, hanno una forte “vocazione economica” e tendono non solo a sfruttare ogni possibile spazio all’interno dell’economia sana infettandolo con la propria presenza, ma anche, in molti casi, addirittura ad occupare interi comparti produttivi. Le più recenti indagini confermano non solo una sempre più forte e marcata presenza delle organizzazioni criminali nel settore agroalimentare ma una vera e propria riconversione delle tradizionali ecomafie (delle quali l’Eurispes, il Noe e Legambiente avevano denunciato il ruolo all’inizio degli anni Novanta) in agromafie. Spesso, infatti, le indagini confermano la presenza – nelle fasi della produzione, trasporto e commercializzazione – degli stessi sodalizi criminali da tempo osservati come attori protagonisti della illegalità ambientale.

Dopo aver devastato nei decenni passati importanti porzioni del nostro territorio nazionale grazie alla assenza di leggi adeguate, le ecomafie, come si diceva prima, scoprono i vantaggi di una scarsa e contraddittoria regolazione legislativa e di un inesistente deterrente sul piano repressivo sul fronte agroalimentare. In ciò assistite da una normativa europea che sempre più appare ispirata alla ambiguità, alla scarsa trasparenza e alla tutela di interessi industriali poco o per niente attenti ai reali diritti dei consumatori.

Siamo di fronte ad una vera e propria strategia di omologazione delle produzioni all’interno della quale le diversità e le peculiarità vengono vissute come un ingombrante fastidio di cui liberarsi.

L’Unione europea si dimostra ogni giorno di più un vero e proprio “frullatore di identità e di culture, di saperi e di sapori” che non riconosce e non protegge la qualità, ma si acconcia alla quantità e alla legge del più forte. Ne è un esempio il grande e non risolto problema della etichettatura attraverso la quale si dovrebbero garantire la trasparenza dei percorsi di produzione e l’identità dei cibi che arrivano sulle nostre tavole, o alle difficoltà che ancora incontra la coltivazione biologica. E, al contrario, la progressiva e spesso surrettizia espansione dell’Ogm vero grande nemico della qualità.

In questo quadro le produzioni locali, lascito della storia e della esperienza di chi ci ha preceduto, devono confrontarsi con l’indifferenza o l’ostilità di una burocrazia, nazionale ed europea, ormai autoreferenziale e spesso asservita agli obiettivi e alle strategie di vendita e di consumo delle multinazionali del cibo. In altri casi, la apparente tutela di particolari produzioni locali viene utilizzata come specchietto per le allodole nel tentativo di convincere l’opinione pubblica di un interesse e di una protezione inesistenti.

La dimensione simbolica del cibo

Oltre a rispondere ad un bisogno umano primario, il cibo abbraccia anche dimensioni simboliche e culturali. Quello del cibo è un tema con ricadute economiche, sociali, ambientali, demografiche.

Il cibo è il primo collegamento tra l’essere umano e la terra, è connesso con i cicli ambientali ed inserisce l’uomo all’interno della catena alimentare.

L’alimento, inoltre, è storicamente lo specchio dei tempi. Lo è in modo evidente nella sua dimensione sociale, espressa dalla condivisione e dalla convivialità.

L’evoluzione delle dinamiche relative al consumo ed alla condivisione del cibo viaggia insieme ai più generali mutamenti delle società.

Oggi un pasto può rappresentare la testimonianza della globalizzazione, dell’affermazione del villaggio globale.

I cambiamenti nella cultura e nell’etica modificano dunque la percezione degli alimenti. Non si tratta solo di reperibilità dei prodotti (legata, indirettamente, al loro prezzo), ma anche di sensibilità diffusa ed informazione. Una popolazione più attiva rispetto al passato nella ricerca e nella maturazione di informazioni sui prodotti e sulla salute opera scelte alimentari più consapevoli e complesse.

Il rapporto con il cibo è oggi l’intrecciarsi di diverse componenti: necessità, piacere del mangiar bene, socialità, consumo critico, sicurezza/insicurezza rispetto alla qualità degli alimenti, responsabilità sociale nei confronti dell’ambiente. Il rapporto con il cibo è espressione dell’identità e di uno stile di vita.

L’impatto della crisi economica sui consumi alimentari

L’industria alimentare italiana vale 6,8 miliardi di euro (dato 2012), che equivalgono a 10 volte il mercato delle più ambite tecnologie del momento – computer, tablet, smartphone – e 3 volte il business del calcio.

Il settore alimentare, tradizionalmente anticiclico e quindi impermeabile ai periodi di crisi economica, negli anni più recenti sta invece facendo registrare una battuta d’arresto. Con il calo dei consumi interni, anche la produzione ha segnato una diminuzione. Nel 2012 il calo dei volumi prodotti dall’industria alimentare è stato dell’1,4%; il fatturato (130 miliardi) è cresciuto complessivamente del 2,3% solo grazie all’export (+8%).

E se il numero delle imprese del settore è rimasto nell’ultimo anno stabile (6.250), gli addetti sono invece diminuiti del 4% (406.000). Il comparto ha quindi in parte subìto le conseguenze della crisi economica, pur mantenendosi decisamente più solido rispetto agli altri settori industriali.

A differenza dell’export, i consumi alimentari interni mostrano una flessione. Il calo del 7,7% dei consumi alimentari dal 2007 al 2012 (dati Istat), suggerisce che oggi i beni alimentari rientrano tra i principali ammortizzatori delle crescenti spese delle famiglie e del loro ridotto potere d’acquisto. Il consuntivo 2012 delle vendite alimentari fa segnare -0,6% sui dati grezzi e -0,4% sui dati destagionalizzati. Il primo semestre del 2013 ha fatto registrare un ulteriore calo. Accanto all’accentuarsi della crisi non va dimenticato che nel 2012 i prezzi alimentari al consumo sono aumentati del 2,6%.

I dati dell’indagine Eurispes del 2013 (Rapporto Italia 2013) parlano di una riduzione generalizzata di quasi tutti i tipi di spesa, indice di una condizione di sofferenza delle famiglie. Si compra meno e di minor qualità.

Nell’ultimo anno l’86,7% degli italiani ha ridotto le spese per i pasti fuori casa, l’84,8% ha cambiato marca di un prodotto alimentare se più conveniente. Il 72,6% ha cercato punti vendita più economici per l’acquisto di prodotti alimentari; nel 2012 riferiva di averlo fatto un ben più contenuto 52,1%.

In un contesto di crisi tangibile, gli àmbiti nei quali la quasi totalità degli italiani si sono impegnati per risparmiare sono in primo luogo quelli del superfluo – regali, viaggi, pasti fuori casa, tempo libero. Anche se in misura leggermente minore, gli italiani hanno rinunciato anche ad una parte delle spese per trattamenti estetici e di benessere e per le tanto amate apparecchiature tecnologiche. Rispetto a tutti questi ambiti, per i prodotti alimentari si riscontra una maggiore resistenza a risparmiare a scapito della qualità, tuttavia la maggioranza afferma di averlo fatto.

Gli intervistati che hanno affermato di aver ridotto le proprie spese per i pasti fuori casa e per il tempo libero riferiscono nel 77,2% dei casi di sostituire sempre più spesso la pizzeria/ristorante con cene a casa tra amici (contro il 56,7% dell’anno precedente). Più della metà degli italiani ha preso l’abitudine di portarsi il pranzo da casa nei giorni lavorativi (54,9%), mentre il 44,1% va più spesso a pranzo/cena da parenti/genitori (erano il 35,4% un anno fa).

Le difficoltà economiche sembrano aver modificato molte abitudini della vita quotidiana degli italiani, anche in ambito alimentare, inducendo la maggioranza a prestare attenzione ai propri comportamenti di spesa ed adottare accorgimenti per limitare gli sprechi, anche in ambiti apparentemente poco rilevanti. In questo quadro di contrazione generalizzata delle spese al campione è stato domandato, limitatamente all’ambito delle spese non indispensabili, a quale non vorrebbe rinunciare. La spesa a cui agli italiani costerebbe di più rinunciare sono i prodotti alimentari di qualità (36,5%). Al secondo posto si collocano gli spostamenti su mezzo privato (automobile, motoveicolo), indicati dal 18,2% del campione, al terzo i viaggi (11,5%).

Questo risultato conferma come la cultura degli alimenti di qualità e della buona cucina sia ancora fortemente radicata, come da tradizione, nel nostro Paese.

Condotte ed abitudini si stanno tuttavia ridefinendo in relazione alla congiuntura economica. Negli ultimi 5 anni gli acquisti di prodotti alimentari hanno subìto una flessione complessiva del 10%, pari a 20 miliardi di euro in meno. Esaminando le tipologie di prodotto, emerge un aumento nell’acquisto di pasta – bene economico che consente di mettere in tavola un pasto soddisfacente –, cioccolato e gelati. In calo invece carne, salumi, frutta fresca, pesce, latticini, olio, prodotti decisamente più costosi. La carne, che 5 anni fa pesava nella composizione del paniere alimentare per il 2,90%, è ora scesa al 2,59%. La pasta, al contrario, è aumentata dallo 0,58% allo 0,61%, tornando al centro dei consumi degli italiani come nei difficili anni del Dopoguerra (per oltre 10 milioni di italiani la pasta viene messa in tavola tutti i giorni).

La crisi economica ha quindi imposto agli italiani una ridefinizione del proprio paniere alimentare, con un taglio della quantità ed una selezione diversa rispetto al passato. La spesa è più ragionata, consapevole e prudente (da qui anche la riduzione degli sprechi).

In questa congiuntura la flessione appare più di lungo periodo rispetto alle crisi del passato. Le abitudini degli italiani si stanno modificando sotto diversi punti di vista: la spesa si fa più spesso (meno frequente la grande spesa settimanale al supermercato) ma comprando meno, limitando quindi lo spreco. Risulta in aumento la vendita dei prodotti più economici e di quelli di alta qualità, in calo quella di tutti i prodotti di fascia intermedia.

Tutto ciò coincide con l’allarme lanciato a suo tempo dall’Eurispes sul progressivo impoverimento dei ceti medi, ovvero di quella fascia centrale della società italiana che aveva legato anche alla qualità dell’alimentazione la conferma del proprio avanzamento sociale.

Un’indagine realizzata da Coldiretti nel 2013 conferma i cambiamenti nei comportamenti alimentari degli italiani come conseguenza della crisi. Un italiano su tre rinuncia al pasto completo a pranzo e si ferma al primo piatto; solo il 18% fa un pasto completo, il 9% si limita ad un panino.

Per le fasce di popolazione in maggiore difficoltà, d’altra parte, si osserva un innegabile abbassamento della qualità dei cibi consumati. Ne è prova la fioritura nelle città italiane di negozi di frutta e verdura gestiti da egiziani, caratterizzati da prezzi bassi e qualità scadente: aperti 24 ore su 24, con un’offerta di prodotti di seconda scelta, spesso sottoposti a controlli scarsi o con standard bassi, sostituiscono oggi molti piccoli negozi italiani.

Questo progressivo abbassamento del livello della qualità dei consumi alimentari favorisce l’ingresso nel mercato di produzioni dall’origine incerta.

Assistiamo ad una vera e propria opera di costante falsificazione: basti pensare all’olio extravergine di oliva messo in vendita sugli scaffali dei supermercati a prezzi che si potrebbero considerare del tutto irrisori, se veramente il prodotto corrispondesse alla sua rappresentazione.

Anzi, ad osservare i prezzi offerti al pubblico, si potrebbe pensare che le aziende produttrici abbiano deciso di trasformarsi in veri e propri enti di beneficienza o di pubblica assistenza. Naturalmente, così non è, ma al consumatore viene data l’illusione di non aver modificato gli standard qualitativi ai quali, nel tempo, si era abituato.

L’attenzione all’alimentazione

In risposta a mutamenti culturali, ma anche a suggestioni di matrice eterogenea, l’approccio degli italiani all’alimentazione sta cambiando in modo evidente, benché talvolta contraddittorio.

Fattori come i canoni estetici condivisi, la diffusione della cultura del mangiar sano e della tutela della salute, la pressione della pubblicità e l’influenza dei messaggi mediatici, i ritmi di vita e la struttura della famiglia, le condizioni economiche contribuiscono a determinare gli stili alimentari adottati dagli italiani.

La maggiore attenzione a ciò che si mangia deriva dunque da una concomitanza di fattori tra cui vanno annoverati la crisi economica e gli scandali alimentari, ma anche la tutela della salute e dell’ambiente.

Tuttavia, tanto più crescono l’attenzione e i timori dei consumatori, tanto più si fa intenso il bombardamento pubblicitario che impone il consumo di prodotti di origine industriale, la cui preparazione sfugge spesso ai più elementari dettami della trasparenza. In molti casi basta un marchio dal nome suggestivo, che richiama a specifici territori e a specifiche tradizioni, per mascherare l’utilizzo di materie prime di scarsa qualità provenienti magari da paesi lontani, nei quali i controlli e gli standard produttivi sono di livello notevolmente inferiore a quelli italiani.

Possiamo così consumare mozzarelle di bufala campana prodotte con latte congelato polacco o rumeno e pomodori pelati coltivati in Cina ma confezionati in Italia. O così come regolarmente accade per un famoso pastificio, che fa dell’italianità una vera e propria bandiera e poi utilizza principalmente grano ucraino lavorato e confezionato in Turchia o in Grecia.

A scatenare le maggiori ansie, che poi conducono ad un approccio ossessivo nei confronti del cibo, sono stati soprattutto casi come quello della “mucca pazza”, l’aviaria, la carne di cavallo surrettiziamente mescolata a quella bovina nella preparazione di ripieni, le intossicazioni da mercurio presente nei pesci, i timori legati agli Ogm.

I comportamenti alimentari hanno significati consci e inconsci. Il cibo che un individuo sceglie di mangiare costituisce per molti versi una carta d’identità, un segno di appartenenza (alla propria terra, ad esempio, o ad una categoria etica, come molti vegetariani, vegani, fruttariani) e di distinzione, una presa di distanza da condotte che non si condividono. Le scelte alimentari possiedono una componente affettiva e culturale, in alcuni casi fortemente etica.

La falsificazione o l’alterazione, quindi, oltre ad ingannare il consumatore sul piano della qualità, lo tradiscono su quello della libera scelta e del diritto ad una informazione corretta e trasparente.

La ricerca della qualità

In alcuni casi la maggiore attenzione all’alimentazione rappresenta anche una riscoperta del valore culturale del cibo. Lo dimostrano il crescente interesse nei confronti del rapporto tra cibo e territorio e la diffidenza verso l’industrializzazione eccessiva del settore agroalimentare.

La diffusa esterofilia, che ha caratterizzato buona parte della popolazione italiana negli anni relativamente recenti dell’invasione dei fast food sul modello americano prima e dell’etnico generico poi, sembra ora in ribasso rispetto alla predilezione per il Made in Italy. Benché le diverse mode portino molti italiani alla sperimentazione culinaria, la maggioranza dei nostri connazionali appare propensa ad affidarsi ai sapori nazionali, locali, regionali, come più certa garanzia di qualità e di affidabilità.

Gli ultimi anni raccontano una innegabile diffusione della cultura del mangiar sano, amplificata dallo spazio su Tv e giornali dei consigli dei nutrizionisti.

Se i consumi alimentari rimangono fermi in questa difficile congiuntura, quelli di nicchia (biologici, di origine controllata e protetta, equo solidali, ecc.) segnano invece un incremento: nelle scelte di molti italiani la qualità prevale sulla quantità. Il 70% degli italiani afferma di acquistare almeno il 20% degli alimenti biologici. Tra le motivazioni per l’acquisto di cibi bio, il 71% cita la tutela della salute, il 46% la tutela dell’ambiente, il 40% il gusto, il 20% il benessere degli animali. Più del 70% si dice “molto preoccupato” dall’inquinamento dell’aria e dell’acqua e dai pesticidi nel cibo (fonte Ocse).

L’indagine contenuta nel Rapporto Italia 2012 dell’Eurispes indica che il 77,6% degli italiani nell’acquisto di prodotti alimentari privilegia il Made in Italy. Il 46,4% compra spesso prodotti con marchio Dop-Igp-Doc. Il 76,8% controlla l’etichettatura di provenienza dei prodotti.

Nell’ambito di questa tendenza va letta anche la crescita dei farmer’s market e della spesa a km zero, il cui successo testimonia la sensibilità verso il rispetto della stagionalità dei prodotti. Lo dimostrano gli 8.400 punti vendita in Italia che aderiscono alla Campagna Amica promossa da Coldiretti ed i Mercati della terra di Slow Food. Queste iniziative rappresentano il tentativo di riavvicinare città e campagna, di accorciare la filiera, di riscoprire prodotti di stagione e territorio, di promuovere consumi alimentari consapevoli e responsabili.

I princìpi cardine sono il rispetto della stagionalità e la volontà di sfruttare le peculiarità del territorio. Non è un caso se questo settore dell’alimentare risulta meno in crisi rispetto agli altri. Nel 2012 gli acquisti diretti di prodotti alimentari dai produttori hanno conosciuto un incremento del 40%.

Sta quindi emergendo una rinnovata cultura del cibo. È una mentalità che si può definire Slow food – come l’associazione internazionale fondata in Italia da Carlo Petrini in contrapposizione allo stile alimentare del Fast food, la cui filosofia si basa sull’educazione al gusto, al piacere del cibo, alla difesa delle tradizioni agricole locali dall’omologazione e dalle manipolazioni genetiche.

Ma i segnali della crescente attenzione nei confronti del cibo di qualità e dell’alimentazione sono molteplici. L’edizione 2012 di Cibus, Salone Internazionale dell’alimentazione, a Parma, sui temi dell’alimentazione equilibrata e genuina e sul Made in Italy, ha fatto registrare un grande successo: 63.000 visitatori, 1.000 giornalisti accreditati, 2.300 aziende espositrici (tra cui ben 350 aziende di prodotti biologici).

Tutte espressioni che favoriscono lo sviluppo di un processo culturale oltre che commerciale.

Ma proprio questa riscoperta della qualità, delle produzioni locali, dei vantaggi del chilometro zero, della stagionalità, del consumo consapevole è considerata il vero nemico da combattere per le multinazionali del cibo, il cui obiettivo rimane pur sempre quello della eliminazione delle differenze e delle peculiarità per affermare quel processo di omologazione e di assoggettamento che ci renda tutti buone, obbedienti, sostituibili, silenziose vittime o inconsapevoli complici.

 

 

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