Videointervento del Dott. Nino Cartabellotta, Presidente GIMBE, alla presentazione del 2°Rapporto sul Sistema sanitario promosso da Eurispes ed Enpam
Riportiamo, a seguire, alcuni stralci dell’intervento del Dottor Nino Cartabellotta, Presidente GIMBE; alla presentazione del 2°Rapporto sul Sistema sanitario, promosso dall’Osservatorio Salute, Legalità e Previdenza Eurispes-Enpam. Il video dell’intervento è invece disponibile al seguente link
«Abbiamo ancora il Servizio sanitario nazionale o abbiamo ventuno Sistemi sanitari regionali? La risposta è, purtroppo, verosimilmente la seconda. Vero è che la legge istitutiva del 1978 definiva una serie di requisiti, soprattutto di princìpi fondanti che sono quelli di universalità, equità, uguaglianza. Princìpi fortemente traditi da quelle che sono le performance del Servizio sanitario nazionale. La metà delle regioni italiane, prevalentemente al Centro-Sud, non riescono ad erogare l’assistenza essenziale. Abbiamo un finanziamento pubblico che come spesa pro capite si colloca sotto la media OCSE – davanti solo a Spagna, Portogallo, Grecia e Paesi dell’Europa dell’Est.
Penso che oggi la politica debba fare una riflessione passando da un patto sociale, cioè: quale Servizio sanitario vogliamo lasciare alle future generazioni? È chiaro che se facciamo riferimento al Ssn istituito nel 1978, non possiamo andare avanti. Col 6,2% del Pil – che spendiamo in sanità – possiamo guardare solo alla lista dei farmaci essenziali dell’OMS piuttosto che alle grandi innovazioni che arriveranno, sulla carta, ma non saranno equamente distribuite sul territorio nazionale. Spesso diciamo di avere molti centri di eccellenza in Italia, ma questi centri sono solo una parte della qualità del Servizio sanitario di questo Paese, perché la qualità di un servizio si misura con l’equa accessibilità alle innovazioni da parte di tutti i cittadini. Noi, rispetto ad altri paesi, abbiamo un diritto costituzionale alla tutela della salute che vede tutti uguali di fronte a questo diritto. Se questo non è garantito, il sistema non funziona più. Se la politica non ha il coraggio di smantellare ufficialmente il Servizio sanitario nazionale, gli sta in realtà togliendo l’ossigeno – anno dopo anno, decennio dopo decennio – e noi ci troviamo qui oggi a discutere del fatto che il Ssn sia in codice rosso ormai già da diverso tempo.
La riflessione è prima di tutto politica: vogliamo rilanciare il Servizio sanitario nazionale? C’è bisogno di una quota di risorse, che io al momento non so stimare, ci si aspetta un segnale, un finanziamento progressivo che risulti in un rilancio della sanità pubblica e che dovrebbe leggersi nel documento di economia e finanza. Oggi leggiamo che dal 2024 al 2026 la crescita media annua del Pil attesa è 3,6%, della sanità è 0,6%. La sanità, per la politica, vale un sesto della crescita del Paese quando, invece, sappiamo che il livello di salute e di benessere di una popolazione rappresenta una variabile indipendente della crescita economica del Paese, non solo perché dà occupazione ma perché se stiamo tutti meglio possiamo lavorare in maniera più efficiente – non dobbiamo occuparci dei parenti malati –, il livello di produttività aumenta.
Questo è un primo modello su cui riflettere. Il secondo modello si basa sulla volontà di andare verso una sanità di libero mercato: abbandoniamo il Servizio sanitario pubblico equo e universalistico – c’è un mondo che vuole investire nella sanità –, decidiamo che cosa togliere dai livelli essenziali di assistenza. Per inciso, abbiamo uno dei finanziamenti pubblici più bassi d’Europa, però abbiamo il paniere LEA più ampio possibile.
Quello su cui bisogna investire prevalentemente è il capitale umano. Il capitale umano può funzionare sia in un sistema pubblico equo e universalistico sia in un sistema parzialmente privatizzato.
Poi, c’è la questione della governance Stato-Regione. Nonostante qualcuno abbia indicato GIMBE come centralista, io sono convinto che tornare alla centralizzazione non sia organizzativamente fattibile né economicamente sostenibile. La programmazione e gestione dei servizi sanitari deve rimanere affidata alle Regioni ma lo Stato deve aumentare le capacità di indirizzo e verifica, perché dopo la riforma del 2001 non ha fatto più il suo dovere. Tutte le Regioni del Centro-Sud non si sono più riprese perché sono in piano di rientro da quindici anni. Quindi, questi sistemi di governance che stiamo utilizzando sono obsoleti e, paradossalmente, li abbiamo riproposti nel Contratto Istituzionale di Sviluppo del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza.
L’ultima considerazione, sul discorso del PNRR. È ovvio che il Piano sia stato disegnato sulla base delle principali criticità – carenze di tipo strutturale e tecnologico – ma, permettetemi la battuta, noi stiamo investendo parte dei soldi del PNRR su quello che avremmo dovuto pagare con la spesa corrente (apparecchiature e antisismica). Spiegatemi perché ci dobbiamo indebitare per generare spesa non produttiva che non procura valore. C’è poi la grande riforma dell’organizzazione del sistema territoriale – così definita perché l’avremmo dovuta rendicontare nel PNRR come riforma strutturale – che però, a sua volta, ne richiede tante altre per essere attuabile ed al momento rimane soltanto sulla carta. Non è facendo un elenco della standardizzazione – assolutamente dovuto e legittimo – dell’offerta territoriale che noi possiamo cambiare la modalità di regolazione dei servizi territoriali anche perché non dobbiamo dimenticare che il primo ostacolo, ancora una volta, sono le differenze regionali. Un dato per tutti, ma ce ne sarebbero molti altri: uno degli obiettivi che devono essere raggiunti per il 2026 è quello di assistere il 10% della popolazione over 65 nati. Noi raggiungeremo l’obiettivo ma, mentre l’Emilia Romagna deve aumentare del 17% gli assistiti nati, la Calabria deve aumentarli del 450%».