Disponibili online gli atti del webinar su capitale umano, spazi e architettura. 8° Incontro promosso dal Laboratorio dell’Eurispes

A seguire sono disponibili gli atti dell’8° Incontro promosso da Laboratorio sul capitale umano dell’Eurispes. Al centro del dibattito “Il capitale umano: spazi e architettura”.

L’incontro, si è svolto online il 30 novembre 2023. Hanno partecipano alla discussione: Maurizio De Caro, architetto, Federico Andrea Lessio, people experience manager, Pietro Martani, Fondatore di Stella Workspace e strategic advisor di Colliers su workspace innovation, Adele Nardulli, autrice del libro “Si fa presto a dire smart” e imprenditrice, Benedetta Cosmi, Coordinatrice Laboratorio dell’Eurispes sul Capitale umano.

 

 

COSMI: Buon pomeriggio e ben tornati. Siamo al nostro ottavo appuntamento nel contenitore che è quello del Laboratorio Eurispes sul Capitale Umano che fa parte di una grande famiglia, ovvero quella dell’Istituto di Ricerca. In questo contesto oggi mettiamo un altro tassello in quella ricerca sulla qualità del Capitale Umano, come si forma la classe dirigente, le Istituzioni, i valori. Oggi aggiungiamo un altro pezzo facendolo da una particolare, e per me interessantissima, visuale che è quella offerta dagli architetti, offerta da chi rimodula gli spazi e anche da chi invece vive diversamente i tempi. Sappiamo che poi le coordinate su cui si muove tutto restano ancora tempo e spazio anche quando si superano, quando il confine si abbatte o cerchiamo di aumentarlo, riusciamo a fare lo smart working riusciamo a fare tante cose in contemporanea, tante cose che, forse, se fatte bene ci aiutano appunto a vivere di più, più intensamente. Fatte male ci dimezzano invece le possibilità di incontro, di socializzazione, di vita. Gli spazi in questo sono fondamentali, cruciali: gli spazi ci fanno incontrare, ci fanno perdere, delimitano e anche delineano una società e le stesse Istituzioni. Oggi, per esempio, ricorre un compleanno di un architetto fantastico poco fa l’avevo anche postato sui social, è l’ora di introdurre il nostro primo ospite Maurizio De Caro, il nostro architetto, ti lancio anche questa provocazione. Ben arrivato a te agli altri nostri amici di oggi e allora ho condiviso ed è particolare la coincidenza, perché appunto nasceva – il 30 novembre 1508 – Andrea Palladio, il cui vero nome era Andrea Di Pietro della Gondola. A tutti viene in mente quello splendore che ha realizzato che sembra già un quadro, sembra lo spettatore ne faccia parte; è teatro già la sua parete. Quindi, sicuramente è un motivo di orgoglio far parte di quella categoria però è anche un motivo di degrado, perché molte delle bruttezze delle nostre città sono comunque state firmate anche da architetti. Eccoci qui a pensare a quale città possiamo essere, quale ufficio stiamo diventando, quali spazi stiamo invece abbattendo, ricostruendo, ripensando. Lo facciamo anche con gli altri ospiti, in particolare Adele (Nardulli, ndr) che con il suo libro ci porta dentro al lavoro agile, con Pietro (Martani, ndr) che invece è stato uno dei primi a pensare che fare le cose insieme significasse avere più opportunità e, quindi, gli uffici sono belli ma se poi abbattono le pareti e ti fanno conoscere anche le aziende accanto o quella stessa diventa aggregatore. Loro sono la squadra di oggi, ben arrivati a tutti. Parto con te, Maurizio. Dacci un po’ la visione d’architetto, critiche e speranze.

DE CARO: Beh, siccome lo hai citato, Palladio credo che sia stato uno dei primi ad avere un aggettivo – palladiano -, cioè un modo per indicare una certa modalità dell’architettura neoclassica. Quello che mi piace dell’incontro di oggi, saluto Pietro Martani e tutti gli altri, è che le trasformazioni recenti degli ultimi 10-20 anni hanno imposto agli architetti in qualche modo un cambio di rotta, un cambio di paradigma. Per esempio, uno dei temi su cui abbiamo cominciato a dibattere al Politecnico ma anche in altri luoghi – nelle accademie e quant’altro – è il tema della flessibilità dello spazio. Oggi parlare di funzionalità di uno spazio è un argomento assolutamente nullo perché, di fatto, uno spazio deve avere più funzioni deve avere più modalità di utilizzo. In effetti, il coworking è stato è stato un cambiamento abbastanza importante per quanto riguarda la modalità dell’ufficio. Non dimenticate che all’origine dei piani del governo del territorio c’erano le residenze, c’erano gli uffici, c’erano gli standard, c’erano tante altre funzioni. Io vi sto parlando da una cucina che per me è molto più interessante del mio studio, quindi di fatto la funzionalità è stata completamente superata da questo aspetto ma c’è di più. È chiaro che nel corso degli anni le case avevano una loro rigidità per cui una famiglia di quattro persone, nel momento in cui i figli se ne andavano, restava con queste case piuttosto importanti, grandi. Oggi, effettivamente, questa flessibilità, che naturalmente nasce anche dalla tecnologia, mi permette di cambiare lo spazio come più mi piace, come più voglio. Faccio le veci dell’architetto che all’inizio ha progettato la mia abitazione ma modifico la mia casa, che può essere casa ufficio – il Covid ci ha insegnato questo – perché voglio altre funzioni. La tecnologia ci consente di fare tutto questo perché ha avuto un’evoluzione importante e questo ha modificato i comportamenti, ovviamente. Oggi non c’è più questa rigida separazione tra l’aspetto residenziale e l’aspetto lavorativo. Altra cosa: la residenza. Qual è la residenza? Lo studentato, il coworking, l’abitazione temporanea? C’è anche un tema di temporaneità. Una volta la casa era per sempre, per la vita. Oggi, forse, si comincia a pensare che in un’abitazione uno può starci un anno, poi cambia, poi va altrove a seconda delle varie esigenze che ci sono. Per cui, l’architettura ha imparato uno dei paradigmi fondamentali che è la flessibilità, è l’inverso della rigidità classica che imponeva degli spazi che addirittura, ahimè, erano vincolati anche dalle normative vigenti. Quindi, di fatto, ad esempio, un bagno doveva essere fatto in un determinato modo. Il vero progetto non lo faceva l’architetto, lo faceva la norma. Questo superamento è estremamente interessante sia per quanto riguarda gli interni sia per quanto riguarda gli esterni. Questo, ripeto, modifica i nostri comportamenti. È ovvio che oggi definire il concetto di casa, definire il concetto di ufficio è assolutamente superato perché, di fatto, l’ufficio è il tavolo dove io in questo momento ho appoggiato questo computer, non mi serve altro perché io da qui ho accesso a tutte le funzioni tecnologiche che posso utilizzare. Ecco, questa sembra una trasformazione ma è una rivoluzione copernicana. È un po’ come l’intelligenza artificiale – di cui, se volete, parleremo dopo – che ha imposto delle regole anche piuttosto potenti alla progettazione. Questo, secondo me è l’elemento che caratterizza la contemporaneità: la flessibilità; il fatto che non ci sia un elemento rigido e classico, ci deve essere per forza una continua evoluzione. L’architettura diventa continuamente in divenire e questo mi piace moltissimo.

COSMI: Cambieranno anche i materiali, oltre al motivo dell’impatto ecologico? La flessibilità non si abbina, probabilmente, al cemento armato.

DE CARO: Proprio in questi giorni stiamo facendo una serie di valutazioni. Io ho progettato per l’Expo di Milano nel 2015 le architetture di servizio che erano il primo grande intervento in legno mai realizzato in questo paese: 60.000 metri quadrati di abete. Questo legno costa di più, la struttura costa circa il 20% di più ma ha un vantaggio straordinario, non ha cioè bisogno di manutenzione, assolutamente. Alcune delle architetture di servizio sono ancora là perfettamente funzionanti dopo quasi 10 anni. A proposito dei materiali, certo l’attenzione alla sostenibilità, l’ecocompatibilità, è ovvio che ormai sia un tema irrinunciabile. È logico che oggi per noi architetti, noi progettisti, noi teorici il tema della sostenibilità sia implicito al concetto di progettazione. Non ha senso parlare dello stesso tipo di progettazione che si aveva, per esempio, negli anni Cinquanta, col brutalismo. Questa è una trasformazione che nasce dalle nuove condizioni naturali, dalle nuove condizioni del pianeta. Il tema energetico è un tema che in architettura è stato affrontato da pochissimi anni. Per decenni sono state fatte vetrate gigantesche continue che hanno creato tutta una serie di problematiche che ben sapete. È logico che, oggi, ci sono una serie di imposizioni, o meglio delle sollecitazioni, che ci consentono di avere delle case magari un po’ più piccole ma che in qualche modo quantomeno reagiscono in maniera virtuosa col pianeta. L’architettura sapete che si pone sempre in contrasto col pianeta, almeno negli ultimi 2000 anni è stato così.

COSMI: Tra due amanti dell’estetica come siete tu e, appunto, Federico Lessio, introdurrei allora a lui. Che elemento aggiungiamo per i gruppi, per le comunità a questo ragionamento che si fa sugli spazi, sulla società e anche un po’ una visione per il futuro?

LESSIO: Il tema è proprio l’approccio di uno spazio funzione a una funzione che viene risolta dallo spazio in quanto strumento insieme ad altre cose. La tecnologia ci aiuta a risolvere le funzioni. Abbiamo equivocato questo paradigma abbastanza rigido – progettiamo uno spazio perché deve svolgere qualcosa – a in realtà portarci da un’altra parte. Cosa deve fare l’essere umano? Cosa deve fare l’essere umano lavoratore? Cosa deve fare l’essere umano quando vive a casa? Abbiamo parlato del luogo casa, inteso come residenza, poi abbiamo parlato ancora del luogo ufficio dove si svolgono delle attività. Scomodando Marc Augè, il luogo è uno spazio dove c’è un’identità. Ogni strumento di lavoro oggi è più veloce, è efficace, riesce a supportare bene le attività dell’essere umano. Se oggi affrontiamo più il tema del come vivere gli spazi di lavoro e come questi cambiano per essere adeguati alla modernità, oggi forse la modernità è osservare l’essere umano e non osservare più il lavoratore. La parola dipendente è una parola molto forte che identifica qualcuno che fa ciò che gli viene ordinato di fare. Oggi, invece, l’essere umano esprime il proprio potenziale perché esprime ciò che è e fa qualcosa che è coerente alla propria esistenza, pertanto, quando cerca uno spazio di lavoro lo cerca che rispetta i propri valori. Quello che più trovo affascinante in questo momento è che ci sono molte aziende illuminate che hanno incominciato a capire che i propri valori di azienda sono più forti quando sono coerenti al set valoriale delle persone che contribuiscono a questa azienda. Coerenza è, appunto, la capacità di identificare dei valori e di fare delle richieste anche agli architetti perché interpretino questi valori, perché lo spazio sia funzionale. Non la persona si adatta allo spazio che è stato creato ma è lo spazio come strumento che si adatta alle funzioni che devono essere svolte dalla persona e, a quel punto, abbiamo un’accelerazione. Per fare questo non si può fare tutto pensando di progettarlo e implementarlo Ma ci vuole quello che i futurologi chiamano “diffusione su base acquisita”: una innovazione diventa realtà quando il mondo è pronto per accoglierla. Oggi, da quello che posso modestamente vedere io, il mondo è molto più pronto rispetto a qualche anno fa. Abbiamo vissuto molti anni con un approccio allo spazio di lavoro quasi meccanicistico – lo spazio è fatto per controllare il lavoratore – arrivando ad un’interpretazione molto nuova in cui lo spazio di lavoro si fa esso stesso strumento. Io trovo estremamente affascinante questo momento storico, incredibilmente interessante. Ci vuole coerenza ed equilibrio.

COSMI: Adele (Nardulli, ndr), ti senti chiamata in causa quando si parla di lavoratori? Soprattutto in un’azienda come la vostra, che organizza persone in giro per il mondo, sceglie di farlo in modo particolare e lo insegna anche agli altri perché vede che funziona. Raccontaci, anche sulla base delle esperienze che hai vissuto. Dacci una panoramica.

NARDULLI: Grazie della domanda. La mia esperienza di imprenditrice inizia basandosi proprio sul rispetto, sull’ascolto delle persone. Non è uno slogan, è qualche cosa che ci ha portato già da inizio anni Duemila a praticare dei modelli di Smart Working – non si chiamavano neanche così. Erano, quindi, lo sfruttamento delle prime tecnologie di lavoro a distanza che noi abbiamo sfruttato perché un po’ ci serviva per il nostro tipo di servizio – il servizio di traduzione, un servizio linguistico – che aveva risorse distribuite in tutto il mondo, ma soprattutto rispecchiava quella che era l’esigenza prevalente nella nostra azienda ovvero la componente femminile, prevalente com’è nel mondo linguistico. L’obiettivo era quello di cercare di venire incontro a quelle che erano le esigenze non solo delle persone ma anche dell’azienda, nel senso che, chiaramente, mettendo la persona nelle condizioni migliori per poter lavorare, e allo stesso tempo vivere, faceva bene all’azienda al fine della produttività. Semplicemente rendeva felici le persone e quindi garantiva anche il successo globale dell’impresa. Parlare di spazio e tempo – dimensioni che poi sono state formalizzate nella legge sul lavoro agile del 2017 – significa far riferimento a qualcosa che già avevamo sperimentato, cioè trasformare queste due componenti in qualcosa di flessibile e di non ancorato necessariamente sempre a un luogo fisso, quello dell’azienda intesa come unico abitante di uno spazio, non di un coworking, oppure alternativa a casa come si faceva con il telelavoro. Rompere questo parametro, questa equivalenza, con la formalizzazione della legge e con aziende che già l’avevano rimodulata, è stato un elemento talmente magico che poi con la pandemia ci è tornato utilissimo. Lo stesso Ministero ha preso una legge già esistente e l’ha inserita nel decreto risolvendo i suoi problemi. In realtà, come sappiamo, non ha risolto quella che era la cultura delle aziende. Diciamo che erano pronte o pseudo pronte le grandi aziende, ne ho intervistate alcune nel mio libro “Si fa presto a dire smart”. Queste aziende avevano già avviato, ovviamente, dei programmi di lavoro agile, dei programmi pilota partendo magari da alcuni settori dell’azienda. Ciò che invece rimaneva – e purtroppo rimane tutt’ora – indietro sono le piccole e medie imprese che rappresentano il 95% delle imprese italiane. Nel momento in cui noi ci siamo adeguati a questa modalità di lavoro nel 2020, l’abbiamo fatto come un qualcosa di sovraimposto che però, naturalmente, non ci ha trasformato dall’interno. Chi non si era trasformato culturalmente non l’ha fatto certo in quel momento, tanto è vero che finita la pandemia più del 50% delle aziende sono tornate al lavoro in presenza. Molte si sono invece liberate completamente degli uffici e hanno lasciato le persone a casa, tagliando quello che era una voce di costo notevole. La soluzione noi ce la siamo ritrovata in tasca già due anni prima della pandemia. Io ho sperimentato il passaggio da una attività svolta in uno spazio di un’azienda sola a un luogo invece in cui c’era l’aggregazione di diverse aziende. Questo passaggio testimonia proprio la crescita che ha fatto la mia azienda nel lasciare una modalità di pensiero unica e aderire a un qualcosa di condiviso che funzionasse come un sistema di vasi comunicanti. L’incontro nella cosiddetta “piazzetta” non è soltanto networking, è crescita delle persone all’interno delle aziende che parlano con persone di altre realtà, prendono idee da un mondo che è diverso dal loro, lo declinano nella propria azienda ed è lì che nasce l’idea. La creatività nasce anche nei momenti informali tra persone e chiaramente dal lavoro di team tra persone della stessa azienda ma soprattutto se ci si contamina con altre realtà si riesce ad usufruire di qualche cosa che è stato utilizzato in una realtà che è diversa dalla tua nel tuo settore. È lì che innovi, ti rendi diverso. Questo meccanismo va a vantaggio di quello che è il coworking. Detto questo, parliamo dell’equivoco dello smart working. Smart working per tutti oggi vuol dire lavorare da casa, perché c’è stato l’esempio della sperimentazione in pandemia. Smart working, in realtà, vuol dire lavorare in modo intelligente; non significa solo conciliare esigenze di lavoro – perché non c’è niente da conciliare, non sono due cose in contrapposizione, fanno parte della vita –soprattutto vuol dire scegliere in base alle esigenze del lavoro, alla tipologia di lavoro da svolgere, in base alle proprie necessità di quel momento. La gestione di tutti questi aspetti fa parte del lavoro intelligente che è il significato di smart working. È chiaro che se oggi parlare di smart working equivale a parlare di lavoro da casa nascono tutti gli equivoci del caso. Come si fa a risolvere questo problema? Penso che il coworking sia la soluzione ideale perché è flessibile, ti puoi adattare in base all’azienda e alle esigenze del caso, e c’è anche la possibilità di avere una sede per quei collaboratori che possono essere dislocati in vari luoghi nella penisola, o addirittura in giro per il mondo. Nel nostro caso noi abbiamo team di linguisti dislocati in varie parti del mondo e si trovano nel coworking più vicino a casa, lavorano insieme, magari vedono il cliente: immaginate che esplosione di possibilità c’è rispetto ad avere la propria sede fissa oppure andare ad aprirsi un’altra sede in un’altra capitale del mondo, come si faceva prima.

COSMI: Un punto di vista interessante, quello dell’azienda che sceglie il coworking Spesso se ne parlava –specie prima del Covid, diciamo dal 2015 – riferito più ai liberi professionisti, alle partite IVA, ai singoli. In realtà, i singoli di cui parlavamo noi sono gli stessi che poi hai citato tu adesso, cioè quelli che, per esempio, lavorando per un’azienda che ha una sede altrove si appoggiano in questi punti strategici. Si aggiunge però l’idea che invece sia l’azienda a ideare degli spazi, a ripensarli con delle caratteristiche che creano, un po’ enfatizzano, la comunità. Pietro (Martani, ndr), tu sei arrivato prima a pensarlo questo servizio, hai fondato e sei stato l’ideatore di uno di questi spazi di coworking, Copernico a Milano. Adesso in che direzione stai andando? Che idee hai? Cosa ti ispira?

MARTANI: Prima di parlare di futuro conviene parlare un attimo di passato. Ci insegnano gli storici che per capire meglio il futuro bisogna guardare un po’ al passato. Lessio ha costruito con me Copernico ed era la persona che ha sviluppato il concetto di community, di un certo tipo ti esperienza all’interno di un contesto multi aziendale. Copernico, diversamente dal classico spazio di azienda, aveva decine o centinaia di aziende, migliaia di partecipanti – in base ai diversi immobili che avevamo sviluppato. Oggi Federico (Lessio, ndr) gestisce questa stessa experience in una grande azienda. Probabilmente avrò qualche domanda da fare io a lui per capire come l’esperienza della grande azienda può essere trasposta in un contesto di molte aziende. Prima però rispondo alla domanda che mi è stata posta. Cosa succedeva prima e cosa è successo durante la pandemia? Gli ultimi quattro anni ci hanno insegnato tantissimo, probabilmente equivalgono a vent’anni di una storia normale. L’innovazione è stata pervasiva. Noi nel 2015 abbiamo iniziato un’attività mettendo al centro le persone, questo era il nostro mantra. Le aziende più sofisticate come Google, Apple, Ferrero e via dicendo, hanno messo al centro la persona pensando al benessere, al significato che il lavoro trasferisce all’individuo e, quindi, realizza la persona. Noi siamo proprio partiti dalla persona e la logica è stata quella di trasferire i benefici che hanno le persone che lavorano in una grande azienda all’interno di uno spazio con diverse aziende più piccole che non possono permettersi quegli spazi. Arrivato il Covid, siamo andati a lavorare a casa e si diceva che il lavoro in ufficio sarebbe morto perché ormai privo di senso. Ci sono stati diversi sondaggi in tutto il mondo che mettevano in evidenza come le persone riuscissero a bilanciare di più vita e lavoro; dovevano fare meno passaggi dall’ufficio, molti meno chilometri, meno inquinamento nelle nostre città. Poi, progressivamente, si è pian piano tornati in ufficio. Tuttavia, il concetto che l’ufficio era morto permaneva. Negli anni successivi hanno cominciato a emergere nuovi studi che, invece, evidenziavano come le persone cominciassero ad essere alienate, un po’ stanche di lavorare da casa. Contemporaneamente, le aziende sottolineavano come la casa o meglio una videochat non fosse uno strumento per collaborare e innovare. L’innovazione, che è un po’ la benzina delle aziende moderne, nasce da interazioni tridimensionali, da una dialettica fatta di utilizzo di strumenti, dell’incontro tra persone, con tutti gli elementi della fisicità, perché la bidimensionalità che viviamo in questa esperienza oggi non è ricca come se fossimo in un contesto in presenza. Ci sono pro e contro del lavorare da casa, sono emersi, sono diventati chiari. Però oggi c’è una grande opportunità, eredità della pandemia: il lavoro ibrido. Parliamo di lavoro e ufficio ibrido, di una vita più equilibrata, qualcuno parla di ecosistema di spazi. C’è la casa, diventata più adeguata al lavoro, più vicina, più ergonomica. C’è l’ufficio che è cambiato radicalmente: da luogo dove si timbra il cartellino, ci si siede a una scrivania e si invecchia su quella sedia a luogo di interazione, di stimolo e luogo sociale. Tutte le cose che vedo io vanno in questa direzione. La pandemia ci ha dato una grande opportunità, oggi.

COSMI: Invece, guardando al futuro, dove si va?

MARTANI: È utile distinguere tra grandi e piccole aziende perché sono due mondi un po’ diversi. Io cito brevemente quello che vedo nelle grandi aziende. I clienti con cui lavoro stanno trasformando lo spazio, tutti stanno investendo nello spazio perché l’ufficio è diventato una leva di business, un luogo dove le aziende devono attrarre le persone. Qualcuno parla di destination office, l’ufficio come destinazione non come luogo dove dover andare per forza. C’è un altro modo per sintetizzare questo cambiamento: prima si parlava di 20% spazi collaborativi 80% spazi operativi mentre oggi si parla di un rapporto 50 e 50. Gli uffici cambiano, diventano più vicini alla casa, più sensibili alle persone e alle diverse funzioni che dobbiamo svolgere durante la giornata. Le giornate non sono tutte uguali, disegnare uno spazio ufficio in un unico setting o due non corrisponde alle esigenze del lavoro che invece è fatto di necessità diverse: una telefonata, un’interazione informale, una formale e poi magari di lavoro individuale. Lo spazio deve rispettare la produttività del soggetto e i lavori di squadra più o meno formali. Qualcuno parla di Activity Based Working, questa etichetta nel mondo dell’architettura oggi primeggia tra i mantra della trasformazione del luogo di lavoro. Quello che sto cercando di fare io, oggi, con una decina di fondi immobiliari che hanno uffici di vecchia concezione, è di accompagnare questa trasformazione con un focus sulla PMI piuttosto che la grande azienda. Vi faccio un esempio, sto lavorando su un immobile di 40.000 mq a Corsico che non è proprio il luogo più divertente dove andare a lavorare, nonostante ci sia un tessuto urbano. Come facciamo a trasformare un luogo del genere in qualcosa che diventi attrattivo, che faccia sì che il capitale umano di cui parlavamo sia valorizzato? Noi siamo partiti dall’alto, abbiamo preso 5000 mq di lastrico solare per farlo diventare un grande giardino con anche le piscine e diversi punti di lavoro, seguendo quella che è l’eredità della pandemia, lo stare anche fuori e respirare l’aria non incastrati ad un desk. Poi si fanno tutta una serie di azioni che portano la persona che lavora in una piccola azienda a vivere le opportunità della grande azienda e l’opportunità di fare business con altri. Se lo spazio, la tecnologia e i processi sono stati pensati per far sì che le persone si possano incontrare, in quel caso nascono tante opportunità per queste piccole aziende. I giovani sotto i 35 anni non vogliono più stare rinchiusi in un recinto, bisogna lasciarli in un ruscello che scorre con l’acqua fresca, che imparino e che crescano. Questo porta benefici all’azienda. La trasformazione, se vogliamo, è quella un po’ da questi “luoghi stagno” a “luoghi ruscello”.

COSMI: Mi vengono in mente le parole “formazione” e “luoghi”. Una volta il luogo della formazione era la scuola adesso verrebbe da dire che anche il luogo in sé condiziona il tipo di formazione. C’è tutta una questione legata anche al ridisegnare la didattica. Che ne pensi Maurizio (De Caro, ndr)?

DE CARO: Noi abbiamo uno studio in piazza Sant’Ambrogio, che non è una zona periferica, davanti alla basilica. Il nostro studio è quello di Luigi Caccia Dominioni ed è rimasto esattamente come era. Lo abbiamo tenuto così per immergerci in questa cultura profondamente creativa – abbiamo perfino la moquette a terra che credo non abbia più nessuno. Questo lo dico perché, effettivamente, il nostro problema di architetti, progettisti – noi siamo una ventina di architetti – è che il lavoro telematico per noi è quasi impossibile perché io quando parlo con i collaboratori devo capire esattamente il tipo di reazione che hanno rispetto a una formazione che poi, non dimenticate, diventerà un pezzo di città. Noi abbiamo delle responsabilità gravissime, è chiaro che per noi progettare un ufficio, uno spazio, mentre un tempo era solo un motivo legato all’estetica oggi è perfettamente inserito nel contesto dell’etica. Ormai si preferisce stare su un terrazzo, e lavorare lì piuttosto che chiudersi in una situazione vincolante che diventa alienante. Ecco, questa cosa sviluppa invece la produttività. Sembra incredibile, noi produciamo uno studentato al giorno, ogni due giorni. C’è una specie di humus che ci spinge ad arrivare a questo tipo di creatività, non so spiegarlo esattamente. Io uso la matita, i ragazzi usano l’intelligenza artificiale ma il problema è sempre lo stesso. Abbiamo trovato un perfetto equilibrio tra le persone – sono tutti ragazzi sotto i trent’anni, tranne due o tre soci – dove effettivamente non dobbiamo dare nessun tipo di indicazione, sono loro che ci danno quel tipo di indicazione. Credetemi, il cambiamento della flessibilità dell’ufficio è qualcosa che ci è venuto addosso, questo è il tema. Prima, in qualche modo, parlavamo a noi stessi mentre oggi l’architettura si nutre di tutto ciò che non è architettura. L’architettura è il risultato finale ma c’è l’antropologia, la sociologia, la musica, l’arte, c’è altro. E questo ci dà la voglia di arrivare a mangiare tutti insieme mentre ci mettiamo a fare un progetto, perché, evidentemente, questa è la condizione che produce il cosiddetto capitale umano di cui parlavate all’origine.

COSMI: Ti do un ultimo stimolo. In un post di oggi si parlava di Roma, che è una di quelle città con un fabbisogno e una fame insaziabile di spazi per la cultura aperti la sera, malgrado ce ne abbia tanti. Oggi, finalmente, si sono resi conto di ciò e ora a Roma si potrà studiare dentro ai musei anche di sera. Si “scopre” di avere delle bellezze adibite già alla cultura e, soprattutto, invidiabili che potranno essere un patrimonio anche per attirare studenti da altre parti del mondo. Sapere che si può venire a studiare in dei patrimoni come quelli che abbiamo noi in Italia – a maggior ragione nella capitale – potrà essere un elemento anche attrattivo di capitale umano. A te, Maurizio (De Caro, ndr), l’idea degli spazi per gli studenti.

DE CARO: Io credo che, prima di tutto, noi dobbiamo avere la possibilità di utilizzare tutti i meravigliosi spazi che abbiamo a disposizione. È stato appena licenziato il progetto per l’albergo dei poveri di Ferdinando Fuga a Napoli che è uno degli edifici più straordinari della storia d’Italia e che diventerà un centro culturale. La cultura deve diventare un volano di tutto questo perché se io, faccio un esempio, all’interno dello studentato ho anche la possibilità di creare degli elementi di produzione culturale vedrete che diventeranno forme di aggregazione diverse. È inutile parlare di socialità se poi noi facciamo di tutto per non avere poi degli spazi pubblici; il privato cerca di ridurre questo gap ma di fatto poi è difficile. Questa è la vera sfida per il futuro. Io voglio una piazza dove effettivamente accadano delle cose come se non ci fosse distanza tra lo spazio esterno e quello interno. Questa è la città pubblica del futuro secondo me.

COSMI: Federico (Lessio, ndr), immagino che su questo anche tu abbia da dire perché ti ho sentito dire la stessa frase riguardante il “far accadere le cose”.

LESSIO: I progetti si fanno perché vengano magnificati in qualcosa che le persone possano utilizzare, in caso contrario rimangono un esercizio di stile. Maurizio (De Caro, ndr) parlava di utilizzare degli spazi per stimolare le persone, prima abbiamo parlato del rapporto spazio-tempo e di come gli spazi riescano a svolgere delle funzioni in relazione al tempo che le persone vi passano all’interno; questo equilibrio è fondamentale affinché lo spazio sia d’attrazione, uno strumento che deve garantirti la possibilità di spendere del tempo di qualità. Poi abbiamo parlato di esperienza. Io personalmente amo il concetto di esperienza delle persone. La misura del successo di un buon progetto, di una buona realizzazione, è l’esperienza che hanno le persone. Tutto il resto è un parlarci addosso. Un buon progettista di esperienze dovrebbe pensare a questo, dovrebbe porsi sempre la domanda “Che cosa costituisce una buona esperienza?”. Per me la risposta è: tutto. Ogni cosa contribuisce a creare l’esperienza. C’è un altro assunto che io trovo molto interessante e che oggi è molto disponibile, cioè poter contare anche sulle neuroscienze. Il cervello è straordinariamente curioso e risponde in maniera coerente ad una serie di stimoli. Quindi, fuor di metafora, l’arte, le piante, la luce naturale, lavorare su un terrazzo come dicevamo, significa stimolare le persone. E le persone questo lo interpretano non come qualcosa di trascendentale, lo percepiscono per come è costruito il nostro cervello. Visto che il nostro cervello è un risparmiatore riesce a produrre più energia e più valore quando non si deve impegnare nel preoccuparsi di troppe cose. Faccio un esempio banalissimo: se cammino in un parco probabilmente le idee fluiranno più libere perché sono tranquillo, mi sento bene perché l’ambiente a me circostante mi stimola; diversamente, se cammino in una stazione di notte dove magari non mi sento sicuro. L’azione del camminare è la medesima ma quale dei due ambienti riesce a stimolare di più l’azione del riflettere o del farsi venire delle buone idee? Concedetemi questa metafora per dire che l’ambiente influenza le persone, il modo di pensare delle persone. Tornando agli spazi di lavoro, se vogliamo creare uno spazio di lavoro adatto a supportare le attività, dobbiamo interrogarci su quali sono i bisogni che dobbiamo soddisfare, quali saranno i canali attraverso cui il nostro cervello percepirà quello spazio e, a quel punto, decidere se lo voglio rendere più stimolante o più rilassante in base a ciò che dovrò fare all’interno di quello spazio. L’ambizione e l’opportunità, oggi, la vedo proprio in questo. Abbiamo più strumenti rispetto a prima per progettare, affinare, raccogliere feedback continui e, quindi, avere continuamente l’idea che si sta facendo bene. La socialità è un bisogno fondamentale dell’essere umano se riusciamo a supportarla creando degli ambienti adatti, a quel punto ancora una volta acceleriamo l’essere umano. Vorrei tornare alla domanda di Pietro (Martani, ndr) che chiedeva quale fosse il punto di vista delle grandi aziende e di quelle più piccole. Il concetto di comunità è logico che differisca: se abbiamo delle aziende molto piccole abbiamo una comunità che ha bisogno di connessioni all’esterno del micro gruppo; quando, invece, parliamo di grandi aziende abbiamo una comunità interna vivace, poliedrica che per natura è già molto diversificata. Per questo motivo la grande azienda ha la possibilità di costruire questi ambienti sapendo di potersi un po’ riferire alla comunità interna – che è già molto ricca – per poi creare dei punti di connessione con l’esterno. Forse è questa la diversità di prospettiva, con l’intento comune che è quello del come sviluppare, come supportare il capitale umano. Ancora, oggi, il capitale umano fa una grandissima differenza.

COSMI: Prendiamo un caso emblematico, di un fenomeno lombardo, milanese: il fuorisalone, salone del mobile, con tutte le sue numerose iniziative. Se quello non dovesse essere più un punto di incontro tra professionisti ma diventasse un biglietto, seppur gratuito, a un’esposizione, una mostra, la differenza tra le due cose. Lì non sarebbe più quella iniziativa che, invece, era coerente allo spirito di questa regione. Diventerebbe altro. C’è un rischio che la città stia diventando, da questo punto di vista, più da turismo di passaggio che da costruzione di comunità, come poteva essere in quel caso l’incontro tra professionisti, imprenditori in giro per l’attivismo e la frizzante realtà di una di una città come questa? Tu cosa ne pensi, Pietro (Martani, ndr)? C’è questo rischio di fraintendimento?

MARTANI: Assolutamente. Sto lavorando tanto a Venezia su un progetto in laguna e al centro del dibattito c’è l’inserimento di tornelli, di trasformare Venezia in una Disneyland. Probabilmente devono andare in questa direzione perché sta diventando impossibile la gestione dei flussi in città. Milano è cresciuta tantissimo in questi ultimi anni – quasi triplicata rispetto all’Expo del 2015 – e c’è un turismo veramente di passaggio. Però questo è un discorso generico, credo che ci siano tante azioni possibili che sono in realtà già in corso di attuazione e che restituiscono a questi signori di passaggio dei contenuti. Rimanendo nella metafora di Federico (Lessio, ndr), il contenuto come driver dell’esperienza e la città, in qualche modo, è un grande ufficio, se vogliamo rimanere dentro questa logica di parallelismo. Con tante persone che arrivano bisogna fare in modo che noi, come attori di una città, sviluppiamo quei contenuti, facciamo evolvere lo spazio rendendolo aperto, osmotico, e che divenga luogo di espressione delle ricchezze di ogni territorio, ognuno dal proprio punto di vista. Bello l’esempio delle biblioteche. Questa è la direzione: aprire i luoghi, privati o pubblici che siano. È il mercato che fa l’offerta, sono persone che arrivano da tutto il mondo per assaggiare qualcosa in due giorni. Se però, dall’altra parte, siamo in grado di offrire un’esperienza diversa da quella del “passa e vedi sempre le solite cose”, sicuramente la situazione cambia. Il turista di turno ha l’opportunità di partire da internet, navigare in un palinsesto di ricchi eventi iper diversificati – dal micro alla macro. L’esperienza del fuori salone è suprema a livello globale da punto di vista.

COSMI: Su questo aspetto, sulla differenza tra essere ordinato nella fila ed entrare a vedere una esposizione e, invece, quella questione dello spazio inteso come piazza, che cosa aggiungi?

LESSIO: Su questo potremmo aprire veramente ampi discorsi, cioè tra la differenza tra andare a vedere uno spettacolo e, quindi, essere spettatore o essere protagonista. Negli anni Ottanta e Novanta c’era questo equivoco nel rapporto tra l’arte fruita, che veniva vista, e l’arte partecipata in cui lo spettatore diventava parte dell’arte stessa. Il fuori salone, che abbiamo citato, ha questa forza dirompente, ovvero quella di essere un evento partecipato; non c’è un organizzatore e un fruitore, c’è un’intera città che – in pieno stile milanese – accoglie il terzo, l’altro. Milano ha una caratteristica bellissima: è una metropoli tascabile, abitata da sempre da popolazioni diverse; è il luogo nel quale si andava a far accadere le cose. È nella natura di Milano essere accogliente, ancorché a volte si possa dire il contrario, perché è abitata, popolata, partecipata da tanti e questo incrocio di culture fa la differenza tra stare in fila per andare a vedere qualcosa o parteciparla.

COSMI: Adele (Nardulli, ndr), in questo contesto la formazione permanente del capitale umano, che riguarda sicuramente anche il tuo settore, vive una certa concorrenza ora con l’intelligenza artificiale che, comunque, è sottoposta a permanente formazione e aggiornamento. Che ti va di dirci riguardo questo?

NARDULLI: (problemi di connessione)

COSMI: Maurizio (De Caro, ndr), prosegui tu.

DE CARO: La cosa che mi interessa molto in questo dibattito è la ricerca di un’identità. Una delle grandi tradizioni lombarde, milanesi in particolare, è l’idea che il “fare” sia di per sé “fare bene”, cioè muoversi per far accadere le cose. Il tema sostanziale di questi anni sarà quello di capire qual è l’identità di questa città. Milano è sempre stata la capitale dell’arte, della letteratura, la capitale della discografia. Ora non è più così. Questo è il vero tema: Milano vive molto di rendita. Prima c’era lo stile milanese in architettura, era uno stile codificato. Dopo è diventata international style era un’altra cosa. Allora, questa identità vogliamo recuperarla? vogliamo dare veramente dei segnali profondi anche all’interno di questa famosa “piazza” da costruire? In questa piazza accadono delle cose? Benissimo, facciamole accadere ma diamogli anche una densità culturale profonda perché altrimenti non facciamo altro che dire “noi facciamo” ma da qui a dire che facciamo bene ce ne corre. insomma Pensate – lo dico perché voglio essere una voce critica – a una cosa: tra i progetti di architettura europei l’Italia è sempre l’ultima tra quelli selezionati. Noi dobbiamo creare quella ricerca perché c’è questa profondità che in questo periodo mi pare un po’ sopita. I numeri ci sono, funzionano. Milano sta cercando un’identità e, soprattutto, deve capire se vuole diventare una città inclusiva o una città esclusiva cioè un grande circo per ricchi, come ho scritto e come ho detto, oppure qualcos’altro.

COSMI: In realtà vanno di pari passo. Si è incrinata un po’ anche la Milano ricca, dobbiamo ammetterlo. Il motivo anagrafico non può essere sottovalutato del tutto. Nel momento in cui si è incrinata l’immagine della Milano esclusiva sono venuti a mancare anche i soldi per la Milano inclusiva. Se anche questa città si rivolge al passato e non al futuro diventa un’istantanea del Paese preoccupante. Che ne pensate?

NARDULLI: Io vorrei dire una cosa riguardo a questa questione delle città. Torniamo al lavoro agile, al lavoro intelligente. Io vivo a Milano, vederla svuotare durante il periodo della pandemia e anche negli anni successivi sicuramente ha avuto un impatto su di me. Adesso si sta rivitalizzando anche di giorno, non c’è più l’affollamento ai ristoranti, al bar, ma la sera sì grazie al maggiore volume di turismo. Milano è diventata meno una città lavoro diurno ma, forse, si sta più allungando verso la sera e, quindi, ben verrebbero quelle iniziative tipo biblioteche o librerie aperte. Per quanto riguarda il resto d’Italia –se vogliamo rimanere solo sul territorio nazionale –, pensiamo a che cosa ha potuto produrre lo smart working a livello di rivalutazione e valorizzazione di altri luoghi, anche che altri paesi, grazie al fatto che le persone vivono, grazie a un lavoro ibrido oppure a uno smart working totale, quasi tutto appunto in remoto. La cosa bella sarebbe tirare fuori le persone da casa. Se si lavora in remoto non necessariamente bisogna vivere questa vita, questa giornata, dentro quattro pareti. Abbiamo visto che alienazione produce, che scarsi stimoli apporta allo sviluppo della persona, alla crescita, all’evoluzione proprio professionale, alla creatività e via dicendo. È su questo che secondo me bisognerebbe lavorare, al di là della città di Milano che per carità ha le sue trasformazioni ma alla fine esce sempre vincente. Ci sono tutte queste possibilità di rivalutare i paesi del Sud, le zone più rurali, più remote. Il south working si è avviato con la pandemia ed è una realtà che ad oggi dà la possibilità di ampliare il raggio di azione delle assunzioni. Per noi imprenditori è stato qualcosa di pervasivo, è stata una formazione enorme, noi non avevamo mai assunto persone fuori dalla cerchia di Milano – tranne, ovviamente, i collaboratori che si occupano dei servizi linguistici e devono stare nei vari paesi del mondo – ma se dobbiamo parlare di manager eccetera, si cercavano vicino alla sede perché ogni tanto bisognava incontrarsi. Invece ora li scegliamo anche a Roma, a Torino, scegliamo dove ci sono i talenti. Questi talenti hanno però la possibilità di rimanere più vicino alla loro famiglia, la loro realtà. C’è poi la questione delle donne che, prevalentemente, si sa sono addette ai compiti di cura – è così, che ci piaccia o no. Molte donne rinunciano al lavoro proprio perché non possono conciliare i tempi della giornata in modo efficace ed efficiente. Ecco, lo smart working ha dato sicuramente delle possibilità in più in questo senso all’occupazione femminile, con il rovescio della medaglia che però ha chiuso poi in casa tante donne. Quindi bisogna lavorare su questa nuova realtà dello spazio abitativo che è diventato lavorativo. Occorre sviluppare le famose “città dei 15 minuti” e cogliere questa occasione che ci è stata data di valorizzare i territori.

DE CARO: Mi sembrano sicuramente sollecitazioni interessanti, è chiaro che l’opportunità che è arrivata per questo, purtroppo, episodio così drammatico che abbiamo vissuto qualcuno l’ha messa in pratica, riuscendo sicuramente a creare delle condizioni per, addirittura, modificare in meglio il proprio lavoro. Questo vale per tutti, è ovvio. Queste opportunità valgono per chi ha grande creatività o grande capacità produttiva e sono molto deleterie per chi non ne è provvisto naturalmente: è come dire che la tecnologia è deleteria, ma dipende da come la si usa. Non è non è il computer che determina la qualità del lavoro, così come non è lo smart working che determina la qualità delle riunioni. Queste trasformazioni però necessitano di un’attenzione: noi dobbiamo tornare ai vecchi paradigmi della sociologia per cui, inevitabilmente, dobbiamo capire che cosa accade. Questo tipo di trasformazione va vissuta ma con un po’ di distacco, quasi filosofico, rispetto a quello che avviene.

COSMI: Ma c’è una deontologia dell’architetto pubblica, collettiva? O è individuale? Agite ognuno per coscienza o c’è un richiamo collettivo ad una visione di città, di Paese, di professione?

DE CARO: L’architetto per sua natura è un solista, uno che usa uno strumento. Ci sono dei bravissimi trombettisti, pianisti, arpisti ma per trovare un’orchestra che suoni in maniera straordinaria manca qualcuno che diriga come può essere, per esempio, il direttore d’orchestra: potrebbe essere la politica, la funzione pubblica, che oggi purtroppo manca. Questo è il grande dramma, la regia pubblica.

COSMI: A proposito di confine spazio-tempo uno lo abbiamo già non rispettato. Pietro, vuoi chiudere tu?

MARTANI: Al momento attuale pensiamo che in passato era meglio, la natura umana è fatta così, ma se guardiamo la nostra città, le nostre città, le cose sono migliorate. Guardiamo Milano, che conosciamo tutti: c’è più verde, i trasporti sono migliorati, c’è più anche la criminalità ma nei fatti, se andiamo a vedere le statistiche, è migliorata anche quella. Non guardiamo i telegiornali con i loro titoli flash, guardiamo le statistiche e guardiamo la direzione verso la quale andiamo. Poi, ognuno nel proprio mondo faccia quello che abbiamo detto durante questa ora e mezza: apriamo i luoghi e mettiamo il contenuto al centro, facciamo crescere le persone, lavoriamo sul capitale umano, valorizziamo l’eredità della pandemia, la possibilità di vivere la città ma anche avere libertà per andare nella natura. Magari lavorare un giorno a settimana nella natura e ricaricarci per poi tornare insieme agli altri a fare collaborazione e innovazione.

COSMI: Grazie davvero a tutti. A chi ci ha seguito in streaming attraverso innumerevoli social e profili dell’Istituto Eurispes, grazie alla nostra regia che ci ha aiutato anche in questo webinar. Ovviamente i temi sul tavolo – come quello dell’aprire gli spazi – sono una scossa per il capitale umano e li teniamo ben stretti nelle nostre intenzioni.

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