Disponibili online gli atti del webinar su capitale umano, spazi e architettura. 7° Incontro promosso dal Laboratorio dell’Eurispes
L’incontro, che si è svolto online il 29 marzo 2023, ha visto la partecipazione di: Giuseppe Bertagna, Ordinario di Pedagogia generale e sociale, Cristina Mollis, imprenditrice digitale, fondatrice e CEO di The Okapi Network, Claudio Garavaglia, Investment Banker, Claudio Barnini, giornalista, Benedetta Cosmi, Responsabile Laboratorio Eurispes sul capitale umano.
Benedetta Cosmi: Buon pomeriggio a tutti. Grazie per aver deciso di seguire questo che è il 7° incontro del Laboratorio Eurispes sul Capitale umano. Ringrazio gli ospiti che ancora una volta ci sono vicini in questa interessante opportunità che ci porta a legare le sfide delle aziende, piccole e grandi, gli imprenditori che provano a farcela nel nostro Paese, provano a farcela magari sui temi anche difficili che rappresentano quindi dei paletti in più, se vogliamo. Gli altri, quelli che investono, quelli che, quindi, hanno visto le dinamiche delle aziende agire anche sui grandi mercati in borsa, come colleghi giornalisti, hanno affrontato e raccolto i punti di vista su questo àmbito. E poi ovviamente grazie soprattutto a Giuseppe Bertagna che ne ha viste di riforme che hanno toccato il capitale umano, grazie di essere in questo nostro Laboratorio portando tali temi. Grazie ovviamente a Cristina, grazie a Claudio Garavaglia e Claudio Barnini. Ben arrivati anche a tutti coloro che ci seguono sui social. La prima sfida che abbracciamo subito con voi è quella della formazione permanente. Pochi giorni fa ho partecipato ad una lezione in una scuola serale e credo che lì ci sia un potenziale veramente sottovalutato: un po’ di recupero dei Neet, un po’ di recupero degli abbandoni scolastici e un po’ qualcosa in più che non è solamente lo studente identificato con il ragazzo, la ragazza, i giovani, ma in realtà con tutto un tema della formazione anche degli adulti e in quel caso una formazione più consapevole, cioè quella di chi ritorna a scuola perché ha delle necessità maggiori. La prima cosa che restituisco a voi oggi, ringraziando quegli studenti che me l’hanno trasmesso è, e vi chiedo – partiamo in modo non previsto, ma penso sia utile partire da un feedback reale –, è giusto che i serali siano solo di alcuni indirizzi? Allo stato attuale l’Italia ha gli indirizzi per ogni liceo, per ogni tecnico e quindi la separazione tra i due, tre mondi. Facciamo l’esempio di una scuola della Campania, di studenti che avessero la possibilità di scegliere soltanto tra due, tre indirizzi. Quindi la scelta era soltanto tra la scuola tradizionale della mattina e il serale, come se il serale invece avesse già superato la possibilità di determinare il tipo di percorso, come fosse un calderone unico. Quindi avevano scelto il serale come se a scandirlo fosse l’orario, come se a scandirlo fosse il fatto che in quella classe arrivino persone di età diverse. Immaginate quanti riti vengono ribaltati in un solo momento rispetto a quella che noi chiamiamo scuola, quella scandita dalla campanella che suona alle 8 di mattina e frequentata tendenzialmente da studenti di una stessa fascia di età che va avanti in gruppo come classe. Immaginate lì che cosa succede: al tramonto, hanno dai 17 ai 25 anni, quindi una fascia d’età con sfumature diverse, al di là che in mezzo c’è anche la maggiore età che li distingue. Alcuni di loro hanno già un indirizzo, hanno già le spalle un diploma, alcuni vengono da fuori. Ad esempio, una ragazza già diplomata nel suo paese, nelle Filippine, a chi si lamentava della scuola italiana perché troppo difficile diceva: “Andate a studiare nelle Filippine, noi facciamo 10 ore di scuola, quando torniamo a casa facciamo i compiti, siamo lì fino a mezzanotte ci risvegliamo la mattina alle 6:00”. Quindi sicuramente era una reazione a pelle stimolante. C’era chi aveva già studiato al liceo artistico e aveva voglia di seguire un istituto di altra natura per l’amministrazione, quindi contabile. C’era chi aveva abbandonato lo stesso istituto del compagno di liceo artistico o chi si era riscritto invece per la prima volta e un’altra ragazza che invece si era trasferita con la famiglia dal Belgio e, quindi, anche in quel caso, un’altra sensibilità di scuola straniera diversa alle spalle. Quindi un’esperienza diversa, di chi contemporaneamente frequenta due istituti, questo serale di cui vi parlo e un’accademia per estetista. Infatti lì non sono riuscita neanche a capire il perché di questa esigenza e la risposta più frequente era perché: “Uno lo faccio per la professione e uno la faccio per cultura generale”. Questo insomma è un po’ un quadro inedito se vogliamo anche di un pezzo di mondo della scuola, un pezzo di mondo delle nuove generazioni. Quindi ognuno di voi può raccontare un punto di vista differente, con la vostra prospettiva di chi assume, di chi investe, di chi si pone il problema anche di collaborare con i Ministeri per essere attenti a come evolve la società a chi appunto ne scrive. E allora grazie ancora di essere qui, parto con te Giuseppe con queste suggestioni e poi sentiamo anche gli altri ospiti.
Giuseppe Bertagna: Mi spiace deluderti Benedetta, ma io cerco di inabissarmi e di andare nelle profondità che unificano tutte le differenze che tu hai appena ricordato, di giudizio, di esperienza, di storia e di tradizioni. Analizzo proprio il titolo dell’argomento che hai posto in discussione. Il termine cura e il termine capitale umano. Ecco, per il primo termine Io vi leggerei, ma è molto breve, il paragrafo 42 di “Essere tempo” di Heidegger quando dice «La Cura mentre stava attraversando il fiume scorse del fango cretoso pensierosa ne raccolse un po’ e incominciò a dargli forma. Mentre intento a stabilire che cosa abbia fatto interviene Giove. La Cura lo prega di infondere il suo spirito a ciò che essa aveva fatto. Giove acconsente volentieri, ma quando la Cura pretese di imporre il suo nome a ciò che aveva fatto, Giove glielo proibì e volle che fosse imposto il proprio. Mentre la Cura è Giove disputavano sul nome intervenne anche la Terra reclamando che a ciò che era stato fatto fosse imposto il proprio nome, perché lei gli aveva dato una parte del proprio corpo. I disputanti elessero Saturno a giudice, il quale comunicò ai contendenti la seguente decisione: tu Giove che hai dato lo spirito, il significato, la cultura, la prospettiva, al momento della morte riceverai lo spirito. Tu Terra, che hai dato il corpo, riceverai al momento della morte il corpo. Ma poiché fu la Cura che per primo diede forma a questo essere – che saremmo poi noi – finché esso vive sia la cura a possederlo e a sostenerlo. Per quanto concerne la controversia sul nome, si chiami homo perché è fatto di humus cioè di terra, perché è limitato, perché perfettibile, perché non può raggiungere la felicità ma è alla ricerca della felicità, perché non può raggiungere la verità, perché è sempre alla ricerca della verità e quindi è perfettibile». Ecco, io credo che non sia la stessa cosa analizzare i problemi della scuola, delle riforme, del capitale umano dal punto di vista di Giove o dal punto di vista di Terra o dal punto di vista di Cura, i tre protagonisti della impostazione heideggeriana. E allora brevemente vorrei ripercorrere 12.000 anni di storia dal Neolitico perché, per tutti questi millenni, la Cura ha preso in carico, perché dallo spirito, dice Saturno, lo riceverai dopo la morte, la Terra lo riceverai dopo la morte, finché siamo in questa vita siamo tutti nella Cura, nell’intessere relazioni reciproche, nel sostenerci a vicenda, nel non separare ciò che ci sta unito e che è unito. Ebbene, la Cura cioè il cammino nostro che abbiamo fatto come uomini, ha sempre immaginato l’uomo come un produttore. Produttore vuol dire che lavora, che lavora con la téchne (τέχνη) diranno i greci, cioè immaginando ciò che deve fare, concettualizzandolo, poi trovando i modi per costruire per realizzarlo e alla fine dicendosi più o meno soddisfatto di quel risultato. Ma anche consapevole che non c’è risultato che lo soddisfi, perché dopo ogni costruzione ce n’è una migliore e quindi la perfettibilità è intrinseca al tema della tecnica. E con la tecnica e con il lavoro l’uomo scambia sul mercato, che inventa, ciò che gli avanza, perché l’uomo che produce è l’uomo che in parte consuma ciò che produce, ma che buona parte di ciò che produce lo scambia nelle relazioni di cura interpersonali che hanno dato origine al mercato. Il mercato non è una entità astratta, è l’insieme delle relazioni tra gli uomini che si scambiano ciò che loro ritengono superfluo. E questo scambio è un incontro di visioni del mondo, è un incontro di senso che si dà al lavoro, è un incontro che aiuta le persone diverse a capire che nessuna è autosufficiente tutti sono perfettibili e che ciascuno ha bisogno dell’altro e perciò il lavoro diventa quasi il fulcro della formazione. E chi non lavora non può capire quali sono, non solo il significato di ciò che produce, ma il significato dalla propria esistenza. Al punto che l’articolo 1 della nostra Costituzione dice «La Repubblica italiana è fondata sul lavoro». Bene, salto da 12.000 anni a 300 anni; gli uomini con la tecnica hanno inventato la tecnologia. La tecnologia sono macchine che si comportano come gli uomini che producono e che usano la tecnica. Ha incorporato la tecnica per cui le macchine hanno un’idea, la realizzano, alla fine sono capaci di controllare il risultato e quindi sembra che siano autosufficienti. E proprio l’avanzamento tecnologico che oggi è giunto fino agli estremi di sostituire professioni come la mia, come i giornalisti, come quelli che scrivono, oggi possiamo tutti accedere a Chat GPT 4 o 5, 6, 8, quello che verrà. Comunque, la tecnologia che Heidegger nel 1927 identificava, sta sostituendo e quasi costringendo l’uomo ad essere evacuato dall’esperienza della vita ordinaria che avviene, perché si è ostaggio di altri meccanismi. Bene, la tecnologia ha permesso a molti autori (ne cito due topici Attalì, per dire, la Francia che adesso ha le rivolte che conoscete o De Masi, per dire un sociologo che ha teorizzato queste cose 30/40 anni fa) di sostenere che oggi con le tecnologie l’uomo deve lavorare sempre meno fino a far scomparire il lavoro, perché l’uomo non è più produttore, produttori diventano i robot, le macchine, le tecnologie, l’uomo deve essere un consumatore che, come è ovvio, agisce in base alle proprie emozioni, ai propri sentimenti, per cui preferisce A piuttosto che B, e che agisce in base ai propri desideri e che se non realizza i propri desideri si sente insoddisfatto, perché gli creano infelicità e problemi di relazione con la cura, con gli altri. Ecco, se noi dobbiamo investire sul capitale umano e noi dobbiamo investire su una formazione permanente del capitale umano, vorrei fosse chiara che non è la stessa cosa ragionare nell’ottica che da 12.000 anni si è sempre perfezionata e sviluppata e che ha reso possibile quella stagione dei 300 anni che ha creato la tecnologia e che ha creato addirittura l’idea che l’uomo non abbia il lavoro, come dice la Bibbia, come momento costitutivo della sua umanità, per cui è antropologicamente inesistente senza il lavoro. L’uomo senza lavoro non esiste, e quindi è dentro la natura dell’essere umano. Invece, avere a che fare con una concezione dell’uomo nella quale il lavoro viene evacuato a vantaggio di ciò che non è produzione, di ciò che non è lavoro, ma che è consumo, desiderio, emozione, sentimento e realizzazione di felicità. Io sono un sostenitore del vecchio. Sarà perché sono vecchio, ma continuo a pensare che l’uomo non esista se non come esperienza del lavoro e gli dà un senso a quello che fa e che lo aiuta a comprendere tutti i meccanismi che si sono succeduti nella evoluzione di queste migliaia di anni per capire che l’orizzonte deve essere più ampio del lavoro stesso. Perché nessuno lavora per il lavoro, tutti lavorano per una dimensione più completa, integrale, di prospettiva. Ma se noi togliamo dal lavoro, dalla concezione dell’uomo, il fatto che l’uomo deve incontrare nel lavoro un’occasione di crescita per sé e un’occasione di sviluppo della propria cultura, beh, allora io mi arrendo e dico andate avanti voi perché io a questa concezione dell’uomo non aderisco e penso che l’uomo che scambia i propri desideri per diritti, l’uomo che scambia i propri sentimenti per ciò che è bene che ci sia, e l’uomo che consuma, perché è visto solo come consumatore, diventa più schiavo delle macchine che pure ha costruito, e quindi diventa servo delle macchine che dovevano liberarlo. Perciò un conto è immaginare la prospettiva di sviluppo dei sistemi formativi e della formazione permanente in una direzione, un conto immaginarvi nell’altra direzione.
Benedetta Cosmi: Bene quindi in questo, a parte tutta la questione legata un po’ al cuore e alla cura, c’è anche la questione di quella idea di formazione che ha la persona in senso ampio, la persona nel suo impegno, cioè della cultura personale e contemporaneamente l’attività. Cioè non le metteva in antitesi, per cui la persona ha bisogno sia di lavorare attraverso lo studio, sia di Giove che di Terra. Mi viene in mente, allora, che la figura dell’imprenditore è insostituibile a questo punto.
Giuseppe Bertagna: Non c’è dubbio, ma la figura di imprenditore non ha più senso nella seconda concezione.
Cosmi Benedetta: Poi devo aggiungere che l’attenzione, la prudenza, ciò che va assolutamente evitato è di considerare lo studente consumatore. C’è una tendenza in atto, per cui anche la scuola migliore, privata che dà i servizi quasi percepisce il suo utente-cliente-consumatore. In questo probabilmente c’è una deriva, perché non è forse quello, nemmeno chi ne ha il diritto, il dovere si aspetta probabilmente di avere quel ruolo lì, cioè vorrebbe essere trattato probabilmente secondo una concezione diversa del solo consumo. A parte che c’è tutta una teoria sociologica che passa dai consumi alle pratiche, quindi già in questo sarebbe poco rimanere schiacciati nel ruolo di consumatori quando, appunto, le pratiche sono pratiche sociali, culturali; una volta si parlava dei consumi culturali, poi si è preferita la formula di chi produce cultura. E questo senso mi viene in mente l’imprenditoria, l’esperienza di Cristina, preziosissima, perché è rimasta imprenditrice in tutte le attività, anche quelle più manageriali, anche in quelle più legate alla formazione, alla consulenza. Ha visto pregi e difetti di un paese della rete intorno, dell’indotto. Per cui benvenuta, grazie di essere con noi.
Cristina Mollis: Grazie mille a voi, grazie mille Benedetta. Ripartirei, se posso, da una bellissima frase che hai detto all’inizio: avvicinare i saperi. Io come dicevi tu, ho un percorso imprenditoriale, quindi la mia prima impresa l’ho fondata che avevo 33 anni con l’obiettivo di riavvicinare i saperi in qualche maniera non sapevo che potevo dirla così bene all’epoca. Però io venivo dalla consulenza manageriale classica, quindi venivo da quel mondo in cui si fanno tante slide per presentare piani a 5 anni alle grandi aziende che poi ogni anno vengono fatti per fare dei nuovi piani a 5 anni e mi sembrava che mancasse qualcosa. E quel qualcosa secondo me era fatto di avvicinare competenze diverse per arrivare fino in fondo, quindi per mettere le mani, per stare coi piedi piantati a terra e non fare soltanto strategia alta. E così nel fine 2007-2008 ho fondato la mia nuova società che era una società di consulenza atipica, perché quando siamo partiti ma anche che quando poi l’ho lasciata noi eravamo, come dire, equamente distribuiti tra persone che venivano dal Management Consulting, persone che venivano dalla tecnologia (programmatori) e persone che venivano dalla comunicazione. E all’epoca mettere insieme competenze così diverse era, e lo è stata, una sfida vera. Chiedere a uno sviluppatore di sapersi esprimere in slide per farsi capire dal cliente, o chiedere a uno che ha sempre fatto strategia di capire che quello che si dice poi deve essere implementato, deve avere un senso operativo, un senso fattivo, è stata la cosa più bella e quella che secondo me ci ha dato anche maggior attrattività anche sul mercato. E all’inizio non era facile, perché lo sviluppatore adesso dà del deficiente a quello che fa solo le slide e quello che fa solo le slide che fa i giga progetti non capisce che poi c’è qualcuno che li deve fare. Avermi mixato queste competenze su ogni progetto che andavamo a proporre elaborando e chiedendo di lavorare dentro i nostri clienti esattamente con le stesse funzioni, quindi mettendo insieme il marketing con la tecnologia, la produzione con la tecnologia, è stato secondo me vincente, ma è stata anche un’esperienza bellissima perché i punti di vista delle persone messi insieme ti fanno vedere davvero la big picture e non soltanto il tuo pezzettino. Quindi credo che questo sia veramente avvicinare i saperi, quello che posso dire della mia esperienza di imprenditrice, sul lato della formazione dei ragazzi che arrivavano da noi e che arrivano da noi anche oggi, anche se oggi il mio mestiere è un po’ diverso, perché oggi faccio l’imprenditore del fare, anziché andare a raccontare le idee agli altri, sono passata da dire a fare al fare. Credo che oggi la formazione avvenga nei luoghi di lavoro, sempre di più, perché nessuno esce imparato, anche se le università e le scuole le stanno facendo tantissimo. Anch’io di recente sono stata a parlare in una scuola, un liceo e ho trovato dei ragazzi di quarta e quinta superiore così, come dire, ambiziosi in senso positivo di voler imparare un mestiere, di potersi confrontare col mondo del lavoro, quindi con questa volontà di volerlo fare, però ripeto, credo che poi quando arrivi al lavoro impari davvero. Il lavoro è una forma di formazione, scusatemi il gioco di parole, ma mi rifaccio un po’ quello che dice il professor Bertagna, assolutamente fondamentale. Io stessa ho 48 anni, credo negli ultimi due anni di avere assorbito come una spugna come se fossi alle elementari in questa mia nuova veste, in questo mio nuovo mestiere. Ho imparato tante cose, ho imparato a relazionarmi dall’altra parte del tavolo. Quindi credo che il lavoro sia la più grande forma di formazione che abbiamo in assoluto.
Benedetta Cosmi: Adesso tra l’altro sei in un settore che viene considerato trainante, che è quello della transizione ecologica, di attenzione allo spreco dell’acqua, al risparmio, a ridurre l’inquinamento. Insomma una serie di innovazioni nel mondo industriale, se vogliamo, dei prodotti che consumiamo a casa. Anche questo è un tema che secondo me è importante che ci aiuti a capire anche dal punto di vista di chi prova a fare innovazione, prova a farlo in Italia, con gli strumenti che ha, e si accorge che altri non ce ne sono di strumenti a messa a disposizione in quelle dimensioni.
Cristina Mollis: Mi fai venire in mente un paio di considerazioni. La prima è che una formazione da fare sin dall’asilo è proprio quella sulla sostenibilità. Ecco qui invece dobbiamo partire veramente da piccolissimi perché c’è ancora poca cultura della sostenibilità, pochissima. Sta arrivando, ma quello che io vedo è tanto ecoterrorismo che ci spaventa che ci fa vedere il problema più grande di quello che è e quindi difficile da indirizzare, mentre una buona cultura, che poi non è altro che buon senso civico, di rispettare l’ambiente dove noi stiamo le persone che ci stanno accanto, ecco, questa dovrebbe essere la base dell’asilo, delle elementari, delle medie fino sul lavoro. Quindi ci vuole formazione alla cultura della sostenibilità di cui tutti parlano, ma poi metterla in pratica non è facile, perché non siamo abituati. Prima si parlava dell’uomo come consumatore: siamo abituati ad un consumo facile, prendo una roba, prendo un flacone, lo porto via perché è più comodo che magari mixarmi due cose. Quindi imparare questa cultura, insegnarla cultura della sostenibilità è fondamentale. È vero che in questo mio settore noi produciamo e creiamo prodotti per la cura della casa e della persona a basso impatto senza packaging, monouso, col concetto della ricarica e senza trasporto di acqua perché se consideriamo che un prodotto detergente è fatto al 90% di acqua, pensate quanti camion di acqua trasportiamo in giro per il mondo, quando l’acqua la possiamo aggiungere dal rubinetto una volta che abbiamo questo 5-10% di prodotto detergente. Non volevo raccontarvi questo, ma volevo raccontarvi che quando siamo partiti e ho cercato produttori che mi aiutassero su questo in 23 mi hanno risposto che non si poteva fare, che ero una matta, che si è sempre fatto così; 23 su 25, con il ventiquattresimo è andata a metà, con il venticinquesimo ce l’abbiamo fatta. Ci ho messo a far capire che potevamo farcela, mesi a convincere le persone ad aggregarsi intorno a questo progetto; ho fatto meno fatica quando ho chiesto a partner di altre imprese all’estero e adesso, per esempio, a proposito di capitali, siamo in quella fase in cui stiamo facendo un po’ fatica ad accedere ai capitali per far crescere questo progetto.
Benedetta Cosmi: Mi ricordo di aver detto, quasi ingenuamente, qualche giorno fa e genere pure c’è il piano PNRR che dice di avere investito proprio in quel tema.
Cristina Mollis: Devi essere grande per prendere i soldi del PNNR.
Benedetta Cosmi: Esatto, questa risposta che mi hai dato mi ha colpito, perché intanto già a portarci diciamo su questa rotta durante questo webinar stiamo dicendo una cosa importante, stiamo parlando di una imprenditrice con una visione manageriale importante, tra le altre cose hai fatto parte di consigli di amministrazione cruciali, sei stata a capo di strutture grandi come Coin, insomma stiamo parlando di una persona avveduta, non è una persona sprovveduta, non è una persona che lo dice diciamo così come se doveste iniziare oggi, non è nemmeno la startup nei canoni che immaginiamo stiamo parlando di una persona come te che quindi sta mettendo sul tavolo un tema fondamentale. Cioè per accedere a quei fondi che pure rappresentano in una certa misura anche un debito pubblico e che comunque pensano alle prossime generazioni, non si può, se non sei grande. Questa è una cosa preoccupante perché in realtà l’innovazione che manca è proprio nella tua fascia, cioè proprio quella fretta di scatto che bisogna far fare al Paese.
Cristina Mollis: Magari non devi essere grandissimo, però noi siamo ancora troppo piccoli. Questo è un discorso che fa non solo chi ti deve dare il capitale, ma paradossalmente anche chi dovrebbe distribuire i prodotti che ti dice progetto bellissimo, siete bravissimi, ma siete piccoli, non mi fido. Allora non diventerò mai grande.
Benedetta Cosmi: Questo è un punto che non dobbiamo perdere di vista. Quando l’innovazione c’è, quando pure è un tema che consideriamo tutti trainante, rivoluzionario, insomma non più rimandabile, la dimensione non è assistenziale, è come un neonato, siccome è piccolo lo abbandono perché non ha bisogno le nostre attenzioni? No, anzi, ne ha bisogno di più, ha bisogno di più attenzione, di più cura, per rimanere al titolo. La stessa cosa dovremmo saper fare quando immaginiamo politiche pubbliche e quando immaginiamo, in quel caso la grande distribuzione, almeno l’etica con cui fare i conti, però probabilmente la politica la può invece in qualche modo immettere come appunto il fenomeno ACG sta facendo su tanti temi soprattutto in borsa. Quindi scusa se ti ho interrotto però questi punti vanno sicuramente posti all’attenzione, quando parliamo dell’insuccesso della gestione dei fondi del PNRR e la capacità di accedere a questi fondi.
Claudio Garavaglia: Su questo voglio solo dire una cosa ma velocissimamente poi vi rilascio la parola e poi andiamo avanti. Io credo che qui c’è un problema strutturale. Proprio di questi giorni si sente parlare del fatto che probabilmente i 210/220 miliardi, quanti dovessero essere, non potranno essere utilizzati e forse se ne utilizzerà la metà. Ecco allora questo qui è il problema della struttura italiana dell’essere adeguato a poter usufruire di questi fondi, che è una cosa storica che c’è sempre stata, e questo perché? Intanto non dimentichiamo che i 220 miliardi di PNRR sono più o meno pari a 10 finanziarie. Quando nel corso degli anni passati il Governo faceva una manovra da 10/20/30 miliardi era una manovra monster, una manovra molto importante. Oggi abbiamo tutti insieme questa dimensione gigantesca di fondi da utilizzare e quello che manca sono le strutture, perché le strutture importanti come la CDP, come i Fondi di amministrazioni italiane eccetera eccetera, hanno un numero limitatissimo di risorse, non economica, ma di risorse umane, perché non ce la fanno star dietro a queste cose. Quando giustamente diceva Cristina bisogna essere grandi, certo questo è un altro tema che le micro-imprese sono difficili da finanziare. Ma il problema è non è tanto essere grandi o piccoli, il problema è che non si riesce avere accesso perché c’è una coda e un imbottigliamento un cono di bottiglia enorme derivante dal fatto che da sempre non siamo mai stati strutturati, anche quando c’erano i fondi europei non riuscivamo ad utilizzarli che era una cosa assurda. Al Sud Italia non si riuscivano a utilizzare i fondi europei e la gente non aveva i soldi per fare l’iniziativa. Quindi questo è un discorso a parte che di nuovo, se vogliamo, possiamo inserire nel discorso della formazione. Ma, purtroppo, anche negli apparati dello Stato, dell’amministrazione, degli apparati pubblici, occorre avere delle persone abbiano non soltanto una formazione teorica e pubblica su questo, ma abbiano anche una capacità pratica di mettere a terra queste cose, perché altrimenti i soldi ci stanno, ma non sono in grado di mettere a terra nulla, perché non sanno come fare. Non ci sono le risorse per poterlo utilizzare. Questo è un altro aspetto.
Benedetta Cosmi: Allora paradossalmente i soldi che ci sono dovrebbero servire a strutturare quel tipo di risorse umane, a stabilizzare quel tipo di struttura capace di accedere.
Claudio Garavaglia: Se magari quel 3% del PNRR lo investiamo per formare le persone il prossimo PNRR sappiamo come usarlo, perché altrimenti stiamo sempre lì. È come con gli scafisti, è inutile che andiamo a fermare la barca quando sta in mare, bisogna fermarla quando sta là. Quindi adesso ci sono i soldi corriamo a spenderli e cerchiamo di fare la formazione affinché la gente sia in grado di capire come si fa a fare un piano fatto bene, fatto da gente che sta sul campo, che sta in azienda, che sa come funzionano le cose e che quindi è in grado poi di utilizzare. Mi Taccio e così andiamo avanti.
Benedetta Cosmi: No, anzi tu aiutaci a capire dalla tua prospettiva, che comunque ne hai viste di dinamiche, addirittura ora in modo scherzoso dico a commento dell’evento di oggi qualcuno ha detto partecipano anche gli squali. Quindi alludendo al fatto che chi gestisce, chi ti investe, chi gravita in borsa e chi fa operazioni con i soldi pensi solo al profitto. Io sono orgogliosa, perché non solo tutti hanno il diritto di dialogare, ma addirittura hanno il dovere, perché se c’è un mondo opaco, qualora venisse considerato così, a maggior ragione va ancora di più interrogato, intervistato, interpellato, capito e approfondito. Quindi intanto grazie a te per metterci a disposizione dagli strumenti interpretativi per decifrarlo. Quindi aiutaci con la tua panoramica.
Claudio Garavaglia: La prospettiva che vorrei dare è molto diversa dall’intervento del professore ovviamente è molto più terra terra, molto meno importante da un punto di vista sia didattico che in generale filosofico. Però, ecco, cogliendo quello che è il titolo di questo convegno sul capitale umano e gli investimenti, dove qualcuno possa pensare che gli investimenti non hanno nulla a che fare col capitale umano devo dire che non è assolutamente vero. Cioè gli investimenti hanno molto, ma molto, ma molto a che fare con il capitale umano, anzi quasi esclusivamente con il capitale umano. Quindi raccogliendo quello che tu hai detto se c’è magari una poca trasparenza su certe cose sicuramente è colpa degli operatori, come me, che magari non sono stati così attenti a far capire come funziona, però i mercati diciamo che, in genere, tutto sono meno che poco trasparente. Il mercato è fatto per essere trasparente, poi che ci riesca o meno è un altro discorso, ma teoricamente è fatto per essere trasparente. Però appunto gli investimenti sono tutt’altro che numeri, bilanci, contabilità, fatti, strategie, cioè gli investimenti attengono in maniera molto importante a quella che è il capitole umano e direi partiamo da due o tre assunti: il primo sono gli uomini che fanno le aziende e non viceversa. E questo vale sulla piccola azienda sulla startup, vale sulla media azienda, ma vale anche sulla grande azienda; quando uno entra in una grande azienda e pensa che ci siano le procedure, tutto quello che afferisce a un modo di essere di un’azienda che sta lì da 100 anni, in realtà quella grande azienda è stata una media azienda, è stata una piccola azienda, c’è stato qualcuno che poi nel tempo, di là nel tempo l’ha fondata. Quindi soprattutto nella gestione si capisce se nella gestione anche di una grande azienda c’è un management che vale o che non vale e questo si riflette a cascata su tutto il management della società. Quindi, la prima: le persone fanno le azioni. La seconda cosa: quando fai un investimento è meglio avere un management di serie A perché può portare un’azienda dalla serie B alla serie A che non il contrario. Perché se tu hai un manager in serie B rischi che porti una bellissima azienda che magari paga anche molto cara perché è una grande azienda, è una bella azienda, ma poi la fai gestire a gente non competente. La terza cosa, che non è un mio assunto, ma cito quello che disse tantissimi anni fa all’inizio del secolo Henry Ford, cioè che le due cose più importanti di un’azienda non le vedi dal bilancio, perché sono la reputation e le people, le persone che lavorano in azienda. Ecco questa cosa detta da colui che ha inventato l’automobile se vogliamo nel senso moderno del termine, credo sia significativo. Cioè uno può fare tutte le analisi aziendali che vuole, ma poi la reputation e le persone che ci lavorano non li trovi da nessuna parte. Le trovi parlando, intervistando il management, capendo quello che fanno eccetera e la reputation ovviamente deriva della persona. Quando si diceva prima si fa fatica per una startup a trovare i capitali, la reputation di coloro che hanno fatto la startup e di coloro che aiutano la startup a trovare i capitali è fondamentale per trovarli, perché sono le persone che si mettono in gioco dicendo questa è una buona iniziativa, non è una lavorazione. Tornando al titolo di questo seminario il capitale umano è fondamentale negli investimenti ed è esattamente il contrario di quello che qualcuno potrebbe inizialmente pensare. Allora a sostegno di questo Io direi che possono essere degli esempi essendo io un operatore, quindi non voglio fare discorsi teorici, però ci sono tanti esempi aziendali, molti dei quali ovviamente li conosciamo, perché sono importanti, imprenditori famosi, conosciuti, che fanno capire che cosa vuol dire l’imprenditore e poi il management, ma in primis l’imprenditore, in un’azienda. Ne voglio citare solo due o tre, poi magari successivamente ce ne possono essere degli altri ma giusto per far capire. Il primo esempio è quello di Leonardo Del Vecchio un imprenditore che a Milano è stato nei martinitt cioè nell’orfanotrofio tipico, classico e più conosciuto di Milano quindi una persona che non è partita da niente, ma da meno di niente e ha fatto la prima azienda al mondo nell’occhialeria, un’azienda che fa miliardi di fatturato. E come l’ha fatto questo? L’ha fatto partendo da uno scantinato, partendo da un piccolo laboratorio aggregando in un altro, aggregando dei clienti, il grado dei fornitori, aggregando un tessuto sociale e produttivo di piccolo artigianato delle zone dove lui abitava e con questo, crescendo, ha fatto un’impresa che è diventata prima un campione nazionale, poi un campione internazionale, è andato in America ha comprato due grandi marchi, ha fatto tutto quello che abbiamo visto. Se voi oggi andate ancora in Luxottica i manager della Luxottica e di Essilor che in questo momento è la fusione delle tue aziende ancora ricordano il suo stile di management che lui certamente non definiva di management, essendo un imprenditore della prima ora. Era il suo stile di gestione dell’azienda. Allora qui nasce la prima considerazione: perché certe aziende diventano Luxottica ed altre rimangono delle piccole realtà locali, dei laboratori, delle piccole aziende, o anche aziende importanti che però hanno 10 milioni di fatturato e non 50 miliardi. La differenza qual è? La differenza in questo caso è l’imprenditore, in altri casi del management. Quindi la domanda è: perché nello stesso settore, nella stessa area geografica, nello stesso periodo, nella stessa zona c’è un campione mondiale e ci sono degli altri che hanno dei riscontri positivi ma diversi? Certamente il fattore persona è quello che conta. Poi adesso è inutile stare qui ad andare avanti nell’aneddotica di Del Vecchio che ha avuto una vita.
Benedetta Cosmi: Vi ricordate i contratti del job sharing cioè che due persone venivano assunte e si alternavano nelle fasce orarie nei giorni, immaginati che idea di flessibilità che c’è. Era stato previsto, era un contratto previsto, però poi pochi l’hanno adottato. Quindi si aveva tutta un’attenzione alla gestione del capitale umano sicuramente innovativa, un’attenzione al territorio. C’è anche un fattore anagrafico, perché quelle di cui parli tu sono generazioni che appartengono ad un’epoca precedente, quindi bisognerà capire se le generazioni successive sapranno essere Del Vecchio. Attualmente abbiamo per fortuna ancora i fenomeni non so come la Ferrari, la Ferrero, Mulino bianco.
Claudio Garavaglia: Avevi letto i miei appunti perché gli altri due esempi erano la Ferrero e la Fiat. Il secondo esempio che avrei fatto proprio quello di Michele Ferrero anche lui un uomo della provincia, in questo caso non Trentino, ma della provincia di Cuneo, che ad Alba da uno studio di pasticceria ha fatto la seconda azienda alimentare in Europa dopo Nestlé. Il terzo esempio l’avrei fatto sulla FIAT, in questo caso non su l’imprenditore Agnelli, ma l’avrei fatto sul manager Marchionne, in quanto è un manager che ha determinato un cambiamento straordinario in un’azienda che, siamo senza timore di smentite, era quasi sull’orlo del fallimento quando lui l’ha presenta. Allora i temi che qui si pongono sono: uno il passaggio generazionale, quindi come da un grande imprenditore poi l’azienda viene trasmessa ai figli o al management, perché nel caso di Del Vecchio che pure ha lasciato sei eredi con una successione tranquilla, contrariamente ad altri, ha però un manager esterno e quindi c’è un problema di passaggio generazionale; c’è un problema di cambiamento, quindi come è stato gestito il cambiamento, vedi l’esempio di Marchionne o vedi anche l’esempio di chi andrà a gestire Luxottica Milleri, che sta facendo molto bene, ma che è una persona diversa rispetto all’imprenditore che l’ha fondata. C’è un problema di stile di management, perché lo stile di un manager è diverso da quello di un imprenditore, ma anche qui bisogna valutare poi come le cose possono essere fatte. E c’è il tema che accennavo prima perché qualcuno riesce e qualcuno no, quindi perché qualche azienda ripeto nello stesso àmbito, nello stesso settore merceologico diventa un campione mondiale e qualcun altro no. Ecco tutte queste domande afferiscono al capitale umano, perché alla fine una delle risposte alla fine ovviamente è: dipende da chi ci sta dietro. Dipende dalle persone che ci stanno dietro e dalle capacità e dalla volontà che ciascuno di questi hanno e di tipo capacità in senso di saper creare o saper gestire un’azienda, volontà vuol dire la dedizione, il lavoro e stare tutti i giorni sul pezzo. Io pur amando andare in barca, di grandi imprenditori che passano la vita in barca non è che ne ho visti tanti, i grandi imprenditori stanno in azienda, poi fanno anche le proprie cose, però la capacità va unita ad una costanza di duro lavoro e di rendimento. Poi ovviamente c’è un fattore fortuna che questo vale per tutti.
Benedetta Cosmi: Tu Barnini a questo cosa aggiungi nella tua panoramica che pure hai fatto a proposito di personaggi?
Claudio Barnini: Intanto ringrazio tutti quanti voi perché io come giornalista sono sempre egoista. Nel senso che mi piace molto sentire gli altri, assorbo e, come dire, faccio mie determinate emozioni o determinate sensazioni che ricevo da chi parla insomma. Però è facile parlare della mia esperienza, perché il mondo giornalistico è un mondo fatto quasi completamente di capitale umano; poi possiamo anche ragionare su quanto la tecnologia abbia portato anche in questo mondo, sicuramente sì, ma la prima la base dell’aspetto giornalistico resta la persona. Devo dire che qua non ci sono esempi molto positivi. Tant’è vero che il mondo poi delle informazioni in generale, della comunicazione, vive un momento non dico senza regole, ma vive un momento un po’ dilaniato da false notizie, da comportamenti chiamiamoli scorretti. Per me resta tutto fondamentalmente anche dal punto di vista aziendale il tema il capitale umano un tema culturale, cioè bisogna ripartire dalla scuola. Parlo della mia esperienza, io ho fatto l’Istituto Tecnico Nautico arrivato a un certo punto mi sono diplomato dovevo andare a comandare le navi mercantili. Avevo sempre avuto la passione dello scrivere, mi sono trovato ad un bivio dico ma che faccio, vado o non vado? Scelgo di cambiare e all’epoca, parliamo degli anni Ottanta, non c’erano difficoltà a cambiare, prendere una facoltà che non era il tuo percorso di studi, non c’erano limiti particolari, i numeri chiusi o quant’altro. Questo ha comportato che io facessi la scelta giusta, scienze politiche, ho proseguito, fatto il giornalista eccetera. Secondo me, quindi, un tema deve essere intanto culturale aperto, cioè lo Stato deve dare il massimo delle possibilità alle persone che si trovano ad un bivio quando escono dal mondo della scuola, perché spesso la scelta non è così libera come si pensa, è dettata da tanti aspetti, da imposizioni familiari, se c’è necessità di lavorare, o quant’altro. Un altro esempio che porto è che nel 2010 sono state con un’azienda farmaceutica la Menarini a Berlino dove avevano acquisito da poco un’azienda farmaceutica Berlinchen. Noi facciamo un incontro lì tra l’altro venne anche Bruno Vespa a fare una conferenza stampa con i vari Manager. Parliamo di 13 anni fa; dentro questa azienda c’era in una parte dello stabilimento che ci fecero visitare una scolaresca. Era come se fosse un’aula inserita dentro lo stabilimento; avevamo chiesto finito il giro “ma è solo per oggi”? Cioè i ragazzi vengono fanno una sorta di lezione qua? Risposta: no noi abbiamo l’accordo con quell’istituto due volte a settimana fanno lezione direttamente dentro lo stabilimento. È una cosa che 13 anni fa io in Italia non avevo mai visto poteva capitare che c’era qualche accordo particolare, ma non era così stretto e così vincolante. Esempi poi ce ne sono stati anche tanti altri. Quindi due sono i problemi: la formazione e l’informazione, che vanno di pari passo. Anche l’azienda deve essere informata sulle capacità che ha di essere performante sul capitale umano, non soltanto formandolo, perché il capitale umano è elemento del business, non è staccato dal business. Io mi sono occupato di sostenibilità e di diversity e ho fatto due libri su questi due temi, tra l’altro con gli interventi del professor Fara sempre molto azzeccati, laddove lui metteva in risalto proprio questo. Cioè essere per esempio diverso disabile, essere donna, essere più giovane rispetto all’anziano, non è un valore, perché ancora ragioniamo su competenza e capacità, quindi è come se l’azienda non vedesse chi ha di fronte ma studia soltanto le risposte che gli dà. In questo molte aziende si sono date da fare ho portato degli esempi positivi. C’è un’azienda che ha messo a capo della divisione diversity inclusion una ragazza che è non udente dalla nascita, una persona sorda. Si può pensare che sia un passo così, fatto solo per fare notizia. No, è invece emblematico che non soltanto lavora, ma addirittura ha un ruolo di vertice all’interno di un’azienda e pur essendo considerata per tutti disabile. Un altro aspetto che ci tenevo a considerare è che il capitale umano non è, come dire, soltanto lavoro o consumatore. Dietro al capitale umano ci sono le storie personali. Quindi anche lì l’azienda deve dare (parlo in tema di welfare, ma insomma un tema che si avvicina al capitale umano) determinate cose che possono avere un costo all’inizio, probabilmente hanno un costo e parlo di permessi genitoriali, parlo di benefit come i ticket o le palestre o l’assistenza sanitaria. Tutto questo è un ritorno, un ritorno assoluto sia in termini economici che in termini di persone che vivono all’interno della propria azienda. Faccio un esempio su questo, perché forse il mondo dell’informazione è diverso rispetto ad altre aziende e ho lavorato per anni in dei giornali locali, erano un insieme di giornali locali. I messaggi che ci arrivavano dalla proprietà, dall’azienda, e parliamo di giornali quindi il veicolo vincente deve essere la notizia, o comunque quello che porta audience che porta interesse. Avevamo un accordo con l’università ci venivano mandati molti a fare degli stage in redazione diversi giovani, ma io pensavo che l’interesse dell’azienda fosse quello di provare a trovare qualche giovane interessante e poi se si trova qualcuno capace, bravo si contrattualizza e si tiene in azienda, insomma può fare il giornalista può essere utile. E invece sbagliavo perché l’interesse dell’azienda era quello di avere gratuitamente a turno persone che svolgevano mansioni da giornalista senza esserlo e alla scadenza dello stage nessuno aveva prospettive di essere inserito perché ne sarebbero arrivati altri. Senza considerare che da sciocco cercavo di far cadere che se uno è bravo, è utile all’azienda. Non è detto che quello che arriva dopo sia bravo come quello che va via. Però ecco, per questo dicevo che poi bisogna lavorare molto, come diceva qualcuno prima di me, sulla direzione, perché se il manager non c’è noi possiamo fare tutti i PNRR di questo mondo ma restano lì, perché nessuno sa metterli a tappeto, sa metterli in utilità da quel punto di vista è perso. Il capitale umano per me resta la persona al centro di tutto, ma deve essere formata e informata, quindi non è soltanto manovalanza o 8 ore di fabbrica, ma deve essere qualcosa che sia al centro, e per esserlo deve costantemente essere parte del progetto che quella azienda porta avanti.
Benedetta Cosmi: Poco fa si diceva che sono gli uomini, le donne che fanno l’azienda e non è l’azienda quindi sottintendendo che fa l’uomo la donna, in realtà in questo ci sono le due fasi. Probabilmente nel farla nascere è l’uomo o la donna – in realtà forse si tratta di un tessuto – forse è compito sempre di più (ce lo dicevi con l’esempio tedesco), poi dell’azienda di riformare persone. In fondo non è trasmissibile, ovvio che c’è una sorta di dote congenita, personale di intuizione, di capacità e di coraggio.
Claudio Barnini: Su questo argomento c’era un’azienda, non ricordo bene, credo fosse un’azienda francese del campo energetico, che faceva un tour molto interessante nelle sedi che hanno in Francia, quindi sia quelle amministrative sia quelle produttive, sul tema della sostenibilità. E non soltanto invitavano i dipendenti, ma invitavano i figli dei dipendenti, soprattutto se erano in età scolare. In questo tour loro spiegavano che cosa era la sostenibilità, in varie forme, per gli adulti erano forme di relazioni, di convegni eccetera, per i giovani per i ragazzi, per i bambini erano giochi sulla sostenibilità. Era un tour che per l’azienda aveva un costo praticamente zero perché erano le sue sedi e sono i tuoi dipendenti che girano quindi il massimo che poteva essere una spesa forse dei pranzi o degli spostamenti. Il benefit che tu avevi è che su quel tema lì che per te poteva essere importante visto che anche gli investimenti produttivi di quell’azienda andavano verso quella direzione era che li formavi e li informavi non dico a costo zero, ma quasi. Spesso c’è anche questo, alcune aziende pensano ancora che su questi temi siano tutte spese, invece nella maggior parte dei casi si tratta solo di una ristrutturazione interna, di una formazione all’interno e non è un investimento da fare ma un’organizzazione diversa.
Benedetta Cosmi: Grazie. Ritornerei a Mollis per chiudere con te anche perché ti avevamo interrotto perché avevi acceso dei punti che andavano approfonditi. Quella ottica dei saperi che si incrociano, come hai visto, ha dato la possibilità di fare emergere tanti punti di vista in fondo coerenti e per altri versi illuminanti sia su sul modo di intendere sia sul modo di scegliere priorità. Dov’è che ti abbiamo interrotto? Eravamo rimasti alla provocazione che non siamo abbastanza grandi per il PNRR e dall’altra parte io rispondevo e il PNRR non è abbastanza grande (non come dimensione) da aver capito a chi andavano rivolti gli sguardi e quindi, successivamente, i soldi che il problema principale è sempre a chi rivolgi lo sguardo, perché se lo sguardo lo rivolgi solo a chi è più bravo ad attirare l’attenzione siamo certi che i soldi andranno sempre e solo a quelli a cui servono meno.
Cristina Mollis: Rischiamo gli incidenti politici con una premessa così. Secondo me lo sguardo della politica adesso si potrebbe spingere a quelle imprese che stanno veramente cercando di cambiare i modelli e di cambiare le cose. In questo l’Italia è stato uno dei pochi paesi che ha adottato il modello delle società benefit e se si va a leggere cos’è una società benefit in realtà altro non è che il modo di fare impresa di un tempo in cui il valore del territorio, della comunità, del capitale umano, deve far parte della creazione del valore. Quindi non è profitto fine sé stesso che arricchisce l’impresa, ma è il profitto che crea benessere per tutte le parti, quindi per chi lavora, per chi sta vicino, per i fornitori di questa impresa. Se ci pensiamo bene non c’era bisogno della società benefit. Mio nonno era un piccolo imprenditore e mio nonno faceva studiare i suoi operai se non avevano finito le elementari, gli pagava la scuola serale; non glielo chiedeva nessuno e faceva e assumeva loro i figli. E anche se non andava in chiesa, perché non era vicino alla chiesa gli ha aggiustato il tetto, perché faceva parte della comunità e l’abbiamo scoperto quando è morto. Ecco io quando lo leggo della società benefit la figura più vicina che ho era quella di mio nonno, che ha fatto impresa piccola, locale ma aiutando le persone che gli erano vicini. Ecco io forse chiederei alla politica di guardare, di volgere lo sguardo a questo e la società benefit ha nella sua essenza la sostenibilità, ma non solo quella ambientale. Ieri un imprenditore bravissimo Gianmarco Lanza (si occupa di tecnologia e la sua società si chiama Fae Technology ed è una società benefit) diceva: per me essere società benefit significa dare un beneficio concreto alle persone che vengono qui a lavorare e non con tutte queste cose che se stanno bene ci aumenta la produttività che sarà anche vero, ma devono essere contenti e sentirsi bene di venire qui a lavorare e uno stare bene quando vengono qui a lavorare e la sua azienda duplica i fatturati di anno, in anno. Perché? Perché lui crede veramente nel capitale umano, al di là di essere un’impresa tecnologica, per lui essere società benefit è dare un beneficio ai suoi ragazzi alle risorse che ha. Ecco io volgerei veramente lo sguardo qui, a chi sta cercando di fare impresa in una maniera diversa che è un’impresa sana, è un’impresa che riparte dalle origini, che è un’impresa che non ricorre rincorre profitto a tre mesi, a sei mesi, a nove mesi, a un anno. Ma se ci misurassimo anche sul valore generato per l’ambiente, il territorio, ecco questa sarebbe una gran cosa, anche se in numeri non rendono. Io ripartirei da qui. Potrei dire un sacco di cose, ma è così bello tentare di fare impresa facendo del bene che è molto diverso da fare beneficenza o filantropia, dopo che si è fatto impresa nella vecchia maniera e poi arrivi un punto della tua vita in cui ti senti che devi dare fare il famoso give back. Qua parti facendolo mentre lo fai, facendo crescere tutti con te. Questa secondo me potrebbe essere una nuova chiave di lettura.
Benedetta Cosmi: È un po’ come chi pratica la corsa ad ostacoli e sente il bisogno di quell’ostacolo in più, ma quell’ostacolo è intrinseco, non ci sarebbe l’attività sportiva se non ci fosse l’ostacolo posto lì per cui questa è l’immagine che ho. Forse abbiamo ancora qualche minuto.
Giuseppe Bertagna: Posso fare una domanda io alla Mollis? Volevo capire se e come lei giudica la strategia della globalizzazione così come è stata attuata in questi ultimi vent’anni.
Cristina Mollis: Avevamo detto domande facili, questa non è affatto facile. Risponderò così, sto facendo un’impresa Made in Italy. Lavoriamo con partner italiani, con fornitori italiani, ma speriamo di trovare il nostro prodotto anche all’estero e perché poi la crescita passa anche dallo sviluppo all’estero e di portare il buon Made in Italy fuori ci rende tutti orgogliosissimi. Quindi se non facciamo globalizzazione il Made in Italy domani è all’estero non c’è più, no? Quindi questa parte C’è. Il tema della globalizzazione invece intesa come questo appiattimento culturale o questo appiattimento dei consumi, dei prodotti, eccetera o anche produttivo, essere costretti a produrre in un altro paese perché ha costi diversi, secondo me è un po’ di lezione ce l’ha data il Covid e ci ha fatto aprire gli occhi sul fatto che si possono fare le cose fatte bene anche da noi. Bisogna prendere il buono e tenersi il buono della globalizzazione senza arrivare all’eccesso e secondo me è una via è proprio la sostenibilità l’over produzione, per esempio, non ci serve più. Avere tutti noi un limite, darsi un limite nei consumi ci aiuterebbe tantissimo, aiuterebbe anche il nostro Paese. Pensate solo alle materie prime alla plastica riciclata. L’Italia ne è piena. Manchiamo di materie prime su tantissime cose, potremmo di diventare un modello per tutti gli altri paesi in questo. Quindi secondo me bisogna prendere il buono e lasciare le brutte cose della globalizzazione tra cui una è l’over produzione l’over consumo.
Benedetta Cosmi: Tu Giuseppe che ne pensi della tua domanda?
Giuseppe Bertagna: Era solo per dire che quando le logiche sono quelle della Cura e che si vede in tutte le dimensioni che sono state ricordate, Cura vuol dire che la persona non si ritiene esistente senza la relazione con le radici che ha, con le relazioni che intesse, con la storia da cui proviene. Beh quando c’è questa attenzione le cose funzionano, ma vedendo anche quello che è il sentire comune, penso che non sia senza significato che oggi il lavoro non sia più considerato uno strumento di realizzazione umana e culturale, ma sia piuttosto una cosa elitaria la strada della realizzazione attraverso il lavoro, cosa che invece un tempo era la realizzazione personale e sociale. Il nonno di Cristina Mollis era uno che si realizzava lui, ma che realizzava il territorio e l’ambiente comunitario, sociale in cui era inserito. Ecco, io non vedo una grande attenzione a questo riguardo salvo cose di distinzione e di voler appartenere a una parte piuttosto che difendere la reticolarità con il tutto, perché il tutto può stare in piedi solo se c’è la parte, quindi il mondo sta in piedi se c’è l’Italia e se c’è la Mollis e viceversa naturalmente. Pensiamo alle crisi finanziarie hanno prodotto cose che non esistono e come fanno ad esistere cose che non esistono. Se l’economia è sostituita dalla finanza si dura 20 anni, 30 anni, ma poi basta, si finisce. Bisogna tornare alla radice della terra e con lo sguardo aperto al cielo di Giove perché è nell’iperuranio che bisogna cercare una qualche ispirazione. Quindi tenere unite queste dimensioni io non lo vedo essere la caratteristica dei nostri giornalisti e i nostri giornali, quando guardo i titoli dei giornali o i programmi televisivi. Vedo più un’attenzione un po’ modesta e superficiale che non restituisce, soprattutto ai giovani, questa dimensione e quindi oggi ho imparato che voi avete attenzione e valorizzate gente che dovremmo portare sopra il moggio non tenere sotto il moggio.
Cristina Mollis: Posso dire una cosa? Tirata proprio dal professore. Tante volte mi sono ritrovata a cercare un sinonimo di sostenibilità, perché sta diventando un po’ come mobile.
Giuseppe Bertagna: È ormai retorica.
Cristina Mollis: Ma lei ce l’ha detta, è la Cura.
Giuseppe Bertagna: Sì, è la Cura e guardi hanno fatto anche apposta perché Heidegger è quello che aveva visto prima di tutti gli altri quello che lei mi ha risposto a proposito della globalizzazione ed è il primo che ha visto che la macchina tecnologica se è lasciata sola fa deragliare non solo se stessa, ma scarica da se stessa gli ultimi residui umani e quindi non riesce più a reggersi e quindi bisogna tornare un po’ ai fondamentali perché è lì che si trova il sangue che può dare la vita alle articolazioni. Il messaggio di Heidegger come il messaggio di tutta la tradizione occidentale di 12.000 anni è che chi vive sul cellulare e si guarda allo specchio del cellulare in tutta la giornata e che sta lì non esiste, perché non è più un uomo, manca la relazione la relazione è fondamentale, far star bene i propri collaboratori, far star bene alle persone che sono a casa quelli che sono nel territorio. Questa è l’umanità a cui va riferito l’uomo che produce, perché solo l’uomo faber è anche l’uomo politico e se un uomo politico non è uomo faber, se uno va a fare politica perché non ha un altro lavoro fa danni clamorosi se uno pensa di spendere senza lavorare o facendo prestiti fa danni clamorosi. È l’unione di queste dimensioni il faber, il politico e, ovviamente, l’intelligenza, la ragione, il dialogo e l’argomento. Noi viviamo di faziosità, se io sono tuo amico dico che sei bellissima, se sono tuo nemico dico che sei bruttissima.
Claudio Barnini: Se posso aggiungere una cosa penso che un termine che dovremmo usare è “attenzione”, attenzione alle cose, attenzione alle persone, attenzione anche all’uso che si fa della tecnologia. Probabilmente sostenibilità è un termine, come dire, un po’ rovinato anche nell’accezione giornalistica riduttiva di dare un’etichetta e mettere dentro quel termine varie cose. Ma nelle mie esperienze ho visto che noi ci sentiamo parte distaccata di un evento, succede un terremoto dall’altra parte del mondo non ci tocca, il conflitto si avvicina, avviene per esempio in Ucraina ci tocca più vicino. Se noi avessimo attenzione alle storie degli altri o a quello che avviene effettivamente come se fosse per noi avremmo risultato anche diverso in termini di socialità. Quando parliamo di azienda attenta al territorio è chiaro che è al territorio in cui vive. Però come diceva lei, professore, la parte fa parte del tutto, quindi non è che l’azienda può fare soltanto attenzione al suo territorio e quello che poi succede a tre chilometri dopo non è responsabile o è meno attenta. In questo penso che possa essere un termine utile come approfondimento il concetto di attenzione.
Benedetta Cosmi: Grazie a tutti, buon lavoro ognuno nel proprio settore. L’ultima provocazione forse che potremmo dire è che una volta si contrattavano le 150 ore di formazione per i lavoratori, adesso siamo lì che fatichiamo con le 150 ore di alternanza tra scuola e lavoro per riprodurre quell’idea che dicevi anche tu dei due giorni a settimana in azienda. Questi sono un po’ gli equilibri tra il sapere, il lavoro e abbattere un po’ di pregiudizi e di ideologie. Grazie per il contributo che avete dato anche adesso, ovviamente continuate le interazioni tra di voi questo è uno degli obiettivi del laboratorio. Quindi adesso scambiamo i contatti e facciamo delle belle attività, tra l’altro mi avete ricordato che ho un evento si chiama “Sostenibilizziamoci” al quale sono invitata a Como nei prossimi giorni e quindi vi penserò. Grazie arrivederci buon lavoro.