Disponibili online gli atti del webinar su capitale umano, sociale e humanitas. 9° Incontro promosso dal Laboratorio dell’Eurispes
A seguire sono disponibili gli atti del 9° Incontro promosso da Laboratorio sul capitale umano dell’Eurispes. Al centro del dibattito il tema: “Capitale umano, sociale e humanitas”.
L’incontro, si è svolto online il 28 febbraio 2024. Hanno partecipano alla discussione: Mario Morcellini, massmediologo, Professore Emerito di Sociologia dei Processi Culturali e Comunicativi – Sapienza Università di Roma, Rosapia Farese, Co-Fondatrice e Presidente di FareRete-InnovaAzione il Bene Comune, Aldo Berlinguer, Presidente dell’Osservatorio dell’Eurispes sull’insularità e le aree interne, Luigi Balestra, Presidente dell’Osservatorio Riparte l’Italia, Benedetta Cosmi, Coordinatrice del Laboratorio Eurispes sul Capitale Umano.
Benedetta Cosmi: Buon pomeriggio a tutti, siamo al nono incontro del Laboratorio Eurispes che appunto attraverso i webinar collega un po’ in varie città le nostre reti e in questo caso a maggior ragione, perché due degli ospiti di oggi, rispetto alle altre occasioni che già ci avevano visto cercare di realizzare questo ponte, hanno addirittura nel nome l’obiettivo e lo scopo di mettere insieme la filiera, la rete del bene comune dell’innovazione e la ripartenza con gli Stati Generali e quindi saluto e ringrazio anche Luigi da Bologna. Passo però la parola ad Aldo per i saluti introduttivi, sostituisce il Presidente Fara dell’Eurispes e ci dà un collegamento grazie al suo Osservatorio particolare, proprio oggi che, tra l’altro, tutte le attenzioni sono sulla Sardegna. Grazie a chi ci segue dalla diretta streaming e grazie a te per il saluto che porterai.
Aldo Berlinguer: Grazie a voi. Benvenuti agli ospiti e a chi ci sta seguendo. Intanto, un ringraziamento a Bendetta Cosmi che dirige molto proficuamente il Laboratorio sul Capitale umano di Eurispes e che è l’organizzatrice di questo evento di oggi che appunto si intitola “Capitale umano, sociale e humanitas”. Ringrazio e saluto gli altri ospiti, il professor Mario Morcellini che è professore emerito di Sociologia dei processi formativi comunicativi e culturali, già ordinario di Sociologia della comunicazione, prorettore, Preside, non ha bisogno di particolari presentazioni. Saluto anche e ringrazio la Dottoressa Rosapia Farese che si occupa non da oggi di questi temi, è cofondatrice e dirige ed è presidente dell’associazione “FareRete-Innovazione-Bene Comune” e quindi anche questo angolo di visuale rappresenta un contributo importante, significativo a questa nostra discussione. Ringrazio anche il collega Luigi Balestra, che insegna Diritto civile all’Università di Bologna ed è qui nella sua veste di presidente dell’Osservatorio Riparte l’Italia, se non erro, un Osservatorio costituito con Giuseppe Caporale nel 2020 e che pone l’accento sul tema di come questo Paese, anche grazie al capitale umano, possa cercare di ripartire rispetto alla condizione non sempre edificante nella quale versa oggi. Tu dicevi, io presiedo l’Osservatorio Insularità e Aree Interne, che è stato istituito di recente, solo 10 mesi fa, a valle della riforma costituzionale che ha introdotto, o meglio, ha reintrodotto, il principio di insularità in Costituzione su un’iniziativa proprio dei sardi, che hanno fatto un disegno di legge costituzionale di iniziativa popolare, una cosa più unica che rara, e che è riuscita a trovare compimento nell’ultimo giorno della scorsa legislatura, tra l’altro a Camere sciolte in prorogatio. Questa norma è entrata in costituzione e abbiamo istituito un osservatorio che guarda a questi territori vulnerabili, marginali, periferici che hanno in comune con le aree interne proprio la perifericità. Io dal mio angolo di visuale noto molti dei problemi che immagino i colleghi forse vorranno toccare perché in queste aree, che poi sono il 60% del territorio nazionale, si assiste ad un divorante spopolamento, si assiste a una crescente desertificazione dei presìdi pubblici, banalmente dagli ospedali alle scuole, ma anche i presìdi di Forze dell’Ordine. E, come sapete, questi piccoli borghi, tantissimi sotto i 5.000 abitanti, ancor meno in aree tra l’altro con una bassissima densità abitativa, nel momento in cui chiude il benzinaio, chiude la banca, chiude la caserma dei Carabinieri, già si intravede un fine vita, perché la scuola poi non c’è più e quindi non ci sono più le nuove generazioni che si formano e vivono in quel luogo. Assisto a questo declino, rispetto al quale devo dire dobbiamo un po’ tutti insieme unirci per trovare le risposte, degli argini a questa tendenza, se non propriamente riuscire a invertire il trend, che tra l’altro, come dicevate, trova una qualche conferma pure nelle ultime elezioni regionali, non perché chi ha vinto, chi ha perso, meriti o non meriti, quanto perché ha votato il 52,4% degli aventi diritto e questo è un dato che si mantiene costante perché è pressoché identico nel 2019, nel 2014, e ancora indietro; il che vuol dire che c’è una metà di quella società – hanno votato circa 750mila persone su 1 milione e 600mila, che è la popolazione sarda – che sembra interessata a una politica che, come vorremmo tutti che fosse, si traducesse in un cantiere di progettualità per guardare al futuro. Come sottolineavo, non è solo un dato contingente, cioè qualcuno che mostra disaffezione per come si è governato il Comune o la Regione, perché il dato è costante, quindi c’è una disaffezione strutturale e lascia fuori un pezzo rilevantissimo della società tra cui donne e giovani – poi i dati vanno letti bene, bisogna fare delle considerazioni –; c’è davvero un pezzo di società anche giovane che si ritiene avulsa da ciò che la politica possa proporre come immagine del loro futuro. Non c’è solo il tema dell’impoverimento infrastrutturale, economico e quindi anche sociale, culturale, perché poi mancano appunto i presìdi, ma c’è proprio una assenza di fiducia nel futuro e in chi in qualche modo dovrebbe contribuire a disegnarlo. Questo è un qualcosa che passa sempre in subordine e ci si concentra esclusivamente su chi ha vinto, chi ha perso, ma è questo Paese silente che se ne va, che guarda altrove, che non si sente cittadino di questa agorà politica rappresenta davvero una ferita aperta che andrebbe in qualche modo quantomeno curata, non dico che si possa rimarginare nel brevissimo periodo, ma almeno curata. Passerei di nuovo a Benedetta Cosmi la parola, che modera l’iniziativa. Grazie, grazie di nuovo.
Benedetta Cosmi: Grazie a te Aldo, torniamo su questi punti, peraltro fondamentali nel focalizzarci su che cosa vuol dire pensare al capitale umano, perché poi quando tu parli di paesi, e quindi di un paese che dà segnali di fine vita, significa che questo può essere rilanciato solo col capitale umano e quindi bisogna capire chi, dove e come si interfaccia con chi, dove vanno. Ne abbiamo parlato anche agli Stati Generali a Bologna con Luigi, cioè dove vanno quelli che ci lasciano, cosa fanno, con chi riescono a fare rete, con chi riescono a realizzare le loro progettualità che sono spesso imprenditoriali e non solo individuali. Allora passerei a te la parola che con l’osservatorio che vuole essere quotidiano, questo Think Tank che si svolge da una parte come newsletter, ma dall’altra come rete e anche megafono di tutte le personalità che hanno partecipato e partecipano dal vivo al vostro evento, ma che non diventa più solo una sorta di festival, un incontro una volta all’anno estemporaneo, ma va proprio a ricucire quelle distanze e quelle solitudini che abbiamo nel resto dei giovani. Si coltivano le solitudini, si amplificano, non è che si ricuciono, perché quello che manca è sentirsi parte di una progettualità, di una di una squadra, di una formazione continua permanente, parte anche – lo dicevamo anche con Rosapia, sentendoci per questo incontro– di quella classe dirigente che altrimenti prende decisioni in solitudine e senza interfacciarsi in modo costruttivo. Due sono stati gli eventi (il vostro a novembre e un altro credo giù di lì in Sardegna) a cui lo scorso anno ho assistito e durante i quali non ho visto alzarsi la prima fila e lì mi sono accorta che per esempio a Milano, forse ormai anche a Roma, è difficile che gli invitati restino – da voi a Bologna sono rimasti addirittura due giorni, c’era il sindaco di Napoli insieme ad altri suoi ex colleghi rettori e anche ex Ministri dell’università eccetera. Il fatto di interfacciarsi continuamente tra un panel e l’altro, rimanere e studiare, se vogliamo riusare questo termine, o riflettere, e quindi rimanere lì a pensare, non soltanto a parlare nell’attimo di pochi secondi che hanno ascoltato nel prima e nel dopo, questo fa, secondo me, la differenza rispetto alla partecipazione continua e bulimica che tutti abbiamo. Per cui ho voluto radunare voi che in questo, credo, diate un contributo rilevante dal 2020, come ricordava Aldo, quindi da poco, però degli anni simbolici, anche per via della pandemia, in cui abbiamo capito che vanno ricostruite delle infrastrutture di comunicazione – potrebbe essere un’espressione da riproporre poi successivamente per Mario Morcellini. Quindi a te la parola, e grazie di essere qui.
Mario Morcellini: Grazie davvero per l’invito molto gradito. Come ricordavate, “Riparte l’Italia” nasce nel 2020 in piena pandemia e in qualche modo vuole soddisfare quella che era avvertita come un’esigenza di poter dare un contributo alla ripartenza in termini di idee nella consapevolezza – questa era la riflessione che facevamo con Giuseppe Caporale quando ci avventurammo in questa iniziativa – che ormai forse da tre, quattro lustri, se non di più, si è persa l’intermediazione dei corpi, scusate il gioco di parole, intermedi. Cioè la politica ha iniziato direttamente a parlare alla pancia dell’elettore in virtù di una comunicazione che ha decretato il passaggio diretto del messaggio, come se questo fosse in qualche modo più efficace in termini di consenso popolare. Però, sentivamo in apertura che c’è una disaffezione crescente nella cabina elettorale, un vero e proprio disinteresse dell’elettore e, quindi, abbiamo perduto dei punti di riferimento per quel che riguarda l’acquisizione di consapevolezze in merito a interessi, problematiche e, conseguentemente, le scelte che devono essere affrontate, proprio perché c’è stato un superamento di quello che tutta una comunità importante poteva apportare in termini di riflessione culturale. L’Osservatorio nasce da questa esigenza avvertita e ha cercato, in questa prospettiva, di porsi in maniera assolutamente neutrale rispetto al dibattito politico, ma di poter sollecitare anche in maniera critica quelle che sono le problematiche di un Paese che è perennemente in stato di emergenza, perché poi noi siamo abituati a pensare alla pandemia come l’emergenza perché è quella che visivamente più ci tocca, perché in un ristretto lasso temporale c’è una distruzione totale, ci sono morti e quindi questa la viviamo come l’emergenza, ma ci sono tante altre emergenze che questo Paese vive in uno stato di assoluta assuefazione. Una l’avrete vista sulle cronache delle ultime settimane: è quella dell’inquinamento atmosferico che attanaglia il Nord Italia e che provoca, ogni anno, migliaia di morti che passano sotto silenzio, perché ovviamente adottare politiche importanti significa anche perdere consenso, significa imporre restrizioni, limitazioni, abitudini diverse rispetto a quelle a cui siamo abituati; l’altra, ma ce ne sono tante altre a cui si potrebbe far riferimento, è il fenomeno mafioso che attanaglia questo Paese, che lo costringe a vivere con almeno tre o quattro delle organizzazioni criminali più potenti al mondo e lo facciamo con assoluta disinvoltura, al punto che la cultura mafiosa si è impadronita di molti livelli del pubblico. Allora questo è un Paese che, evidentemente, se riesce ancora a rimanere oggigiorno nel G7 con un ruolo diciamo da protagonista, significa che comunque è in grado di esprimere anche delle eccellenze, di questo va dato conto, perché queste sono delle eccellenze che passano sotto silenzio, quasi come se tutto fosse dovuto, e che però contribuiscono a compensare tutte quelle dinamiche negative che sono evidentemente presenti in questa nostra realtà socio-economica. Quando si parla di rete, dal mio punto di vista, è un concetto che andrebbe declinato su plurimi piani; provate a pensare all’individualismo imprenditoriale italiano che ne fa un sistema connotato dal cosiddetto nanismo, e che lo rende poco competitivo rispetto a grandi gruppi stranieri, che non sono necessariamente in America o nell’Est Asiatico, ma basta guardare la Francia. Questo perché gli imprenditori italiani sono straordinariamente bravi nella progettualità, nell’ideazione, ma fanno fatica, in virtù alle volte di un esasperato individualismo, a mettersi insieme e a creare valore aggiunto che possa renderli in qualche modo competitivi. Il tema rete, pensate che nel 2009-2010 fu varata proprio una disciplina che faceva riferimento alle reti di impresa, ebbene andrebbe secondo me coltivato come processo culturale che riguarda non solo le imprese, ma ogni forma di manifestazione socioculturale che possa portare progresso e benessere rispetto a questo Paese. I giovani sono l’anima vincente per il futuro di ogni collettività e allora quando si parla di migrazione, di spopolamento di borghi, di aree in qualche modo depresse, marginali, questo è un grande tema che poi si ricollega al tema ancor più rilevante della migrazione verso l’estero, perché non solo si migra verso territori nazionali più appetibili per quel che riguarda le opportunità di crescita professionale, ma molto spesso l’insoddisfazione e l’incapacità che sappiamo, è tipica della società italiana di dare ingresso a un merito disinteressato. Questo porta a far sì che i giovani vadano all’estero e lì coltivino i sogni che da bambini avevano animato il loro percorso. Ecco, io penso che sui giovani occorra molto lavorare, anche perché c’è un tema che mi sta particolarmente a cuore, che è quello della povertà, che non è soltanto un concetto legato alla circostanza che non si abbiano mezzi di sostentamento o mezzi sufficienti per condurre un’esistenza libera e dignitosa, ma che oggigiorno è un concetto molto complesso, che dobbiamo declinare su plurimi piani. Ad esempio, c’è un tema di povertà educativa, c’è un problema di povertà culturale rispetto al quale chi ha delle responsabilità – ma siamo noi stessi che con questa iniziativa diamo ampio spazio alla riflessione – deve farsi carico per cercare di ricondurre la curiosità, gli stimoli, affinché l’approfondimento culturale possa diventare un punto di approdo per questo popolo giovanile che molto spesso vediamo essere disorientato. E se c’è una défaillance di accesso alla cabina elettorale, ciò riguarda anche la povertà educativa dal mio punto di vista, perché non c’è abbastanza consapevolezza dell’importanza dei doveri civici fondamentali. Oggigiorno noi guardiamo, anzi non guardiamo, a quelle che sono delle libertà fondamentali – e la sensibilità di chi ha introdotto questi lavori, da giurista, ben lo sa – libertà fondamentali sancite da una Costituzione che, quando fu varata, guardava al passato e voleva rinnegare quel che negli anni precedenti era stato totalmente precluso in termini di manifestazione della personalità dell’individuo. Oggigiorno noi vantiamo un testo costituzionale formidabile sotto il profilo dei diritti fondamentali ma, come diceva Norberto Bobbio, non è più un problema di riconoscimento, è un problema di concretizzazione, di renderli effettivi questi diritti; è inutile che ne creiamo sempre dei nuovi, sempre di diversi, ben venga pure tutto questo, ma è fondamentale avviare processi che li rendano effettivi e concreti e per far ciò è necessario che ciascuno acquisti consapevolezza, dal mio punto di vista, che la libertà di manifestazione del pensiero, la libertà di associazione, la libertà religiosa, sono libertà fondamentali che fanno parte di una ricchezza patrimoniale di cui ciascuno di noi deve essere garante, custode e propugnatore, perché una società possa evidentemente progredire. E allora tutto questo si può fare innescando processi culturali nuovi che aggreghino; di qui, l’intuizione di questi incontri, proprio perché fare rete crea valori aggiunti, aiuta a riflettere, aiuta a confrontarsi, genera nuove idee, condivisione e dei percorsi nuovi si possono in qualche modo mettere in piedi soltanto se c’è condivisione; non possiamo affidarci all’individualismo di ciascuno, il quale porta avanti delle iniziative molto spesso benemerite – provate a pensare alla filantropia degli imprenditori, è una filantropia che io definisco egoistica, cioè ciascuno asseconda il proprio personale interesse, la propria prerogativa e alle volte in qualche modo dettata dall’impossibilità di sottrarvisi. La filantropia per avere la sua genuinità deve essere l’atteggiamento di chi si spoglia di qualcosa senza chiederne conto e senza dare direttive su quello che deve avvenire attraverso l’utilizzo di quelle sostanze patrimoniali: cioè un atto veramente disinteressato a beneficio della collettività. È chiaro che devo sempre guidarlo, indirizzarlo perché non ci siano storture, ma proprio per questo bisognerebbe sedersi tutti intorno a un tavolo e condividere delle scelte, perché siano effettivamente rispondenti agli interessi della collettività, sui quali tutti quanti noi oggi siamo chiamati a confrontarci. Qui veramente mi fermo.
Benedetta Cosmi: Proseguiamo con Rosapia Farese, come dal titolo, da capitale umano a capitale sociale, che il passo è breve.
Rosapia Farese: Ringrazio l’Eurispes e soprattutto Benedetta Cosmi dell’opportunità di questo incontro e di poter dare un contributo e lasciare una traccia del pensiero e dei valori della cultura della nostra associazione. Noi intendiamo divulgare per contribuire alla creazione e diffusione di una cultura manageriale tra tutti gli attori del sistema economico e sociale, in particolare noi operiamo nell’ambito della salute, dell’ambiente, del lavoro, dell’educational, dei diritti e dei doveri di cittadinanza a favore della sostenibilità economica del Sistema-Paese, di tutte le problematiche attinenti alla conservazione del Welfare della salute e in particolare della gestione della malattia. Io mi occupo di questi temi da circa 10 anni in un modo molto concreto. Precedentemente, sia per il discorso di Michele Gozzaro, che è stato ispiratore di questo progetto, insieme avevamo fatto un cammino proprio di conoscenza di quello che è il bene comune. Michele Gozzaro ha speso la sua vita personale e professionale nel continuo sforzo di perseguire concretamente questo bene comune, convinto che dobbiamo lasciarci alle spalle la concezione di bene comune come la somma dei beni individuali acquisiti attraverso opportunità individuale e sviluppare, invece, in funzione del primato dell’io, cioè in funzione di quello che è l’ego della persona. Il bene comune inteso, quindi, come sistema di valori a cui aspiriamo ispira il proprio stile di vita, ma anche come fonte di innovazione inclusiva e non esclusiva, come impronta da dare all’agire dell’individuo e all’agire collettivo, come esortazione a creare valore per una società in cui viviamo. L’associazione è incentrata nello sviluppo e nell’innovazione del bene comune; nella sua visione strategica rientrano anche le questioni riguardanti l’inclusione, l’integrazione sociale, al pari di tutti quei fattori che influiscono sulla qualità della vita umana in termini sistemici. L’associazione è un’associazione autonoma, apolitica, apartitica e non persegue fini di lucro. Sia dall’ampiezza delle tematiche interessate che spaziano, come abbiamo visto, dai temi ecologici a quelli economici, sanitari, o della formazione, sia per la tipologia dei destinatari cui sono diretti le nostre iniziative, noi ci distinguiamo rispetto ad altre associazioni che raccolgono popolazione omogenee di soggetti ed operano nell’interesse degli stessi, per il fatto di essere costituita da esperti di varia estrazione, i quali mettono a frutto le proprie conoscenze ed esperienze professionali per operare a fianco e a supporto delle Istituzioni, ma anche di tutti i nostri referenti. I soci non si iscrivono per un tornaconto immediato dei loro bisogni, ma perché si sentono in grado di contribuire attivamente allo sviluppo del bene comune, quindi essere partecipi di un cambiamento strutturale della nostra società. Nel nome dell’associazione ci sono due esortazioni: fare rete e bene comune, che riassumono in toto la visione, la missione e la strategia dell’associazione. La nostra visione è proiettata nello scenario futuro in cui immaginiamo di poter operare; è quella di un mondo migliore in cui tutti, e non solo alcuni, si prodigano con impegno e responsabilità verso il bene comune. Questo è il motivo più profondo per cui è stata istituita l’associazione e rispecchia pienamente gli ideali, i valori, le aspirazioni di tutti i membri, rendendoci orgogliosi di farne parte. Dunque, il bene comune è il fulcro del nostro operare, dove per bene comune noi non intendiamo solo la salvaguardia dei beni materiali assegnati e condivisi dai membri di una comunità, ma anche e soprattutto l’insieme di condizioni che favoriscono il benessere culturale, spirituale e morale degli individui e, quindi, della collettività. Rientrano nella definizione di beni comuni argomenti molto attuali quali la salvaguardia dell’ambiente, la salute, l’educazione, la formazione dei cittadini, le condizioni di lavoro, la pace e il capitale sociale/umano; tutti questi temi rappresentano il fulcro del nostro lavoro. Ci rendiamo conto, così come è definito, di quanto importante e prezioso sia il bene comune, perché in ultima analisi viene a costituire le fondamenta di una sana società con al centro l’essere umano e l’intrinseca ed altissima dignità della sua esistenza. Vorrei entrare nel vivo di questo incontro. Importante è definire il concetto di capitale sociale umano ed evidenziare il suo ruolo cruciale come capitale invisibile che fortifica le nostre società. Nell’epoca attuale il concetto di capitale umano riveste un’importanza cruciale per garantire uno sviluppo socio-economico sostenibile, ponendosi come fondamento per la crescita equa ed inclusiva della società. Le competenze, le conoscenze, le esperienze degli individui non solo favoriscono la crescita economica, ma sono anche determinanti per promuovere la sensibilità verso le sfide ambientali e per assicurare un futuro sostenibile per le prossime generazioni. La salvaguardia dell’equilibrio tra progresso economico e tutela dell’ambiente è al centro del dibattito contemporaneo, poiché i crescenti problemi ambientali sono spesso il risultato delle nostre ambizioni di consumo e di profitto che comportano un utilizzo eccessivo delle risorse naturali e un aumento delle emissioni inquinanti. In questo contesto, il concetto di capitale umano emerge come una leva essenziale per promuovere la sostenibilità dello sviluppo basato su una gestione oculata delle risorse e sull’adozione di comportamenti responsabili. Anche recenti studi hanno evidenziato il legame diretto tra sostenibilità dello sviluppo e capitale umano, sottolineando come un maggiore capitale umano sia associato a una migliore qualità ambientale e a una riduzione del degrado ambientale. Perciò si sottolinea l’importanza degli investimenti nell’istruzione, nella formazione continua, nella sensibilizzazione ambientale per favorire la transizione verso un modello di sviluppo più equo, inclusivo e rispettoso dell’ambiente. Direi che dovremmo andare verso un nuovo modello di sviluppo: per sostenere in modo efficace la sostenibilità dello sviluppo del capitale umano è necessario adottare una serie di strategie integrate, dall’investimento nell’istruzione, alla promozione della partecipazione attiva dei cittadini, passando per l’innovazione tecnologica e la collaborazione multisettoriale. Ogni azione volta a potenziare questo capitale contribuisce a creare le basi per un futuro più equo e resiliente. In quest’epoca in cui le sfide ambientali e sociali richiedono risposte tempestive concrete, il sostegno al capitale umano si rivela un investimento imprescindibile per costruire una società più consapevole, inclusiva e sostenibile. Solo attraverso un impegno condiviso e una visione orientata al bene comune possiamo affrontare le sfide del presente e plasmare un futuro in cui le prospettive più equamente distribuite e la tutela dell’ambiente siano una priorità condivisa. Solo insieme possiamo costruire un mondo in cui il capitale umano sia valorizzato e preservato come risorsa fondamentale per un futuro migliore per tutti. Per questo dobbiamo fare rete, dobbiamo affrontare il tema dei costi per lo sviluppo della persona e la garanzia di ciclo della vita. Emerge la complessità delle sfide attuali; purtroppo la società contemporanea, caratterizzata da una crescente individualizzazione e dalla progressiva sostituzione delle fonti tradizionali di allestimento con dinamiche sociali monetizzate, si trova di fronte ad un onere significativo: la transizione verso una società secolare ha comportato la necessità di sostenere l’educazione e lo sviluppo personale attraverso risorse provenienti principalmente dalla società industriale. Tuttavia, la società attuale si trova ad affrontare il dilemma di sostenere il ciclo della vita in un contesto di solitudine e individualismo crescente, generando così non solo problemi economici, ma anche sociali ed esistenziali. L’analisi critica della società radicale mette in luce le contraddizioni e le sfide legate al mantenimento del ciclo della vita e alla promozione dello sviluppo individuale; in questo contesto, nascondere i problemi di libertinaggio o di impotenza di fronte alla morte imminente non risolve le sfide sottostanti legate ai costi necessari per affrontare l’autodistruzione programmata. Essenziale è affrontare in modo consapevole e responsabile i costi sociali, economici e umani legati allo sviluppo della persona e alla garanzia del ciclo della vita, cercando soluzioni sostenibili e inclusive per il benessere collettivo. Dovrei passare a definire quali possono essere le soluzioni sostenibili e inclusive, ma le esporrò nella seconda parte di questo incontro.
Benedetta Cosmi: Certo, anche perché non vogliamo lanciare messaggi di pessimismo, bensì di realismo. Anche perché, come diceva prima Aldo, non bisogna lasciar decadere i presìdi dello Stato, di salute, ma anche delle relazioni sociali come le scuole, le biblioteche, che sono un elemento di innovazione (a proposito di come innovare il bene comune). Il protagonista di ciò rimane, come recita l’ultima parte del titolo dell’incontro di oggi – che affidiamo a te, Mario – l’humanitas, che ci fa penetrare meglio in alcuni aspetti più legati all’animo umano.
Mario Morcellini: Prima di entrare nel merito del mio intervento, voglio brevemente reagire ai tre interventi. Parto da due punti dell’intervento di Aldo Berlinguer, che in qualche modo ritrovo elaborati negli altri due interventi e quindi, di fatto, cerco di costruire un blocco tra i tre interventi che mi servono molto come base di partenza per il mio ragionamento, che sarà un ragionamento che cerca di ricostruire le basi storiche, culturali e intellettuali dei concetti di bene comune ma, soprattutto, di capitale sociale e capitale culturale – anzi, nell’ordine opposto, il capitale culturale è l’elaborazione più antica, anche se bisogna saperla riconoscere nella storia delle idee, il capitale sociale arriva grazie alla sociologia ma, soprattutto, alla presenza in Italia di un grande sociologo come David Putnam negli anni Cinquanta e Sessanta e poi a Coleman. Il bene comune, come è noto, è un concetto che già esiste addirittura nel tomismo, c’è la fantastica frase di San Tommaso che dice «Bonum est diffusivum sui», una frase molto bella, ma che non tiene conto della nascita della televisione e del digitale, ma ovviamente lui non poteva saperlo. La teoria del bene comune in Italia è stata elaborata da tanti studiosi, uno dei quali disciplinarmente non lontano dalla dagli studi di Aldo Berlinguer che è Ugo Mattei (l’Ugo Mattei, ci tengo a citare, non quello dell’epoca Covid). Allora prenderei alcune parole chiave, anche per rendere un po’ più concreto il mio intervento che è volutamente accademico, perché secondo me il concetto di capitale sociale e capitale umano deve essere elaborato in termini di studi e di ricerca teorica. Allora, il primo è questo straordinario riferimento che mi trova molto vicino all’attenzione per le aree interne, e non mi dispiace citare in questo momento la Sardegna, perché anch’io vedo che uno dei filoni che ha portato un risultato assolutamente imprevisto – voi sapete quanto ormai in Italia sia difficile, grazie ai sondaggi, non prevedere i risultati; stavolta i sondaggi non hanno capito niente e, in effetti, avevamo cominciato a percepire che questi erano un po’ troppo vicini alla classe politica al Governo che è sempre per la cultura una follia, perché poi questo rimane negli anni. Perché è importante il riferimento alle aree interne, alle aree di deprivazione sociale e culturale? Non solo per la povertà culturale di cui, negli ultimi anni, sono diventato uno specialista anche in vista del fatto che questo è l’anno del centenario della nascita di Don Milani. Perché mi colpisce che gli economisti, spesso di provenienza culturale di sinistra – un economista sta alla sinistra sapendo che l’economia per lui è più importante della visione politica e quindi per me questo argomento già lo rende complicato da capire – usano una parola che è sconvolgente, perché la forza delle parole, come è noto omen nomen, significa visioni profonde, quasi pregiudizi. La locuzione che usano gli economisti per descrivere tutte le aree sociali in cui gli investimenti non sono produttivi, perché il numero delle persone li rende insostenibili dal punto di vista economico, è “aree a fallimento di mercato”. Intanto è interessante scoprire che da qualche parte c’è anche un fallimento del mercato, perché altrimenti diventa una teologia pazzesca; dall’altro, sono sorprendenti le definizioni degli studiosi – e qui non mi dispiace frontalmente dire che gli economisti su questo dovrebbero fare un passo indietro – perché ogni volta che all’Agicom usavo questo termine lo usavo in termine tecnico, attaccandolo, e gli economisti mi dicevano «Ah no, ma per noi quello è solo un paradigma scientifico», non sapevano che così raddoppiavano l’onere della difficoltà di una disciplina a capire che al centro ci devono essere gli esseri umani e il bene comune. Condivido, a dire la verità, quasi tutti gli interventi, quindi vedrete che senza quasi conoscerci abbiamo realizzato già sulla carta una bella sintonia. Le aree interne sono affascinanti per la forza dell’identità culturale che vi sopravvive, altrimenti le persone non rimarrebbero in aree così desertificate di possibilità sociali e di servizi. Per farvi capire quanto questo discorso è importante dovrei citare tante cose, come ad esempio Don Milani, il quale si aggrappa ad un paese che è quasi un chiodo in una cartina geografica, che all’epoca addirittura non figurava nelle cartine geografiche di quando Don Milani era vivo. Licenziato da un cardinale, cosa che, ovviamente, nella memoria a noi appare quasi incomprensibile, mandato letteralmente in esilio in questo paese dopo alcune polemiche legate alla sua funzione di viceparroco a Calenzano, lì lui trova la forza di far diventare un paese destinato a scomparire – dove non c’era la luce elettrica, non c’erano quasi le strade, non c’era nulla di intersoggettivo se non un cinema e non imminente – un posto dell’immaginario culturale e educativo della storia del Paese. Noi ancora pensiamo a Don Milani quasi come se fosse vivo e Barbiana è il cuore di questo pensiero, dove è sepolto, tra l’altro, Don Lorenzo. Ma non è solo questo. Quest’anno l’associazione di cui sono Vicepresidente, quella di Docenti Universitari di ispirazione Cattolica, ha voluto dedicare a Don Milani un po’ di eventi e quindi io ho dovuto ristudiarmelo, anche se è stato poco faticoso, perché poi le parole vengono da sole. Ho scoperto, per esempio, che c’è un’intervista fatta all’ultimo Presidente della CEI, l’ex Arcivescovo di Perugia, quindi mio corregionale, che ci racconta come era la vita proprio in quei luoghi. Lui nasce, anche questo non lo sa quasi nessuno in Italia, a molti chilometri di distanza da Barbiana, in posti dove solo i preti o qualche insegnante coraggioso inventava scuole popolari. Ho scoperto, per esempio, che il concetto di scuola popolare, che io rozzamente annettevo a Don Lorenzo, in realtà era già cominciato con un vecchio parroco di cui questo Cardinale, nell’ultimo anno del suo mandato di presidente, ricostruisce la forza e la spiritualità. E quel racconto, lo segnalo ad Aldo perché è una lettura affascinante, è un libro sui centri minori, sulle aree arretrate e su quanto in quei paesi, i carabinieri quando c’erano, la farmacia quando c’era, ma soprattutto il parroco, erano l’elemento che cementava l’identità e l’unità, la percezione di essere qualcosa e oggi purtroppo noi sappiamo che anche quella chance non c’è più per la crisi della vocazione. L’Italia è fatta di tanti paesi, di centri minori: è impressionante e ha ragione Aldo a ricordarci che è il 60% (del territorio). Si può fare un’iniziativa politica che li faccia contare almeno quanto impattano in termini statistici. E per chiudere questo aspetto del mio brevissimo intervento ricordo, come regalo ad Aldo, questa bella citazione di Pavese da La luna e i falò che dice «Un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo che anche quando non ci sei resta ad aspettarti». Io questa roba l’ho studiata perché sono un umbro motivazionale, ma insisto sui paesi, sulle aree interne, sulle aree dette “a fallimento di mercato”; bisogna lanciare un’iniziativa anche scientifica, perché la cultura si è accorta pochissimo di questa realtà. Un solo libro ha scritto un sociologo, non a caso allievo di Gallino, che si chiama Grimaldi – che tra l’altro è anche uno studioso di ex voto – il quale ha lavorato proprio sulle comunità di collina, quindi piacerà ad Aldo sapere che c’è comunque qualche sociologo che si occupa di questi aspetti, non a caso anche lui ha studiato Pavese perché è stato per un po’ il Presidente del Centro di Studi Pavesiani a Santo Stefano Belbo. Questo è il primo riferimento che faccio al dibattito precedente. Il secondo, ancora più importante, perché questo davvero è al cuore di una lettura audace, ma finalmente coraggiosa, della realtà sociale italiana, è la crisi dei corpi intermedi. “Crisi” è ancora una parola accademica, quindi userei scomparsa, liquefazione, rottamazione, perché è difficile pensare che sia stato il destino. Sono stati i modelli di sviluppo, l’incompetenza degli intellettuali che stanno a casa invece di agire sulla scena pubblica, perché più di tutti gli intellettuali potevano sapere che eliminare i punti di passaggio tra la società e gli individui, quindi togliere tutti i ponti che in qualche modo ricollegano le comunità, avrebbe avuto la possibilità di ridurre il drammatico impatto dell’individualismo contemporaneo, una delle peggiori sbornie della cultura soprattutto dei media contemporanei, perché è difficile negare che ci sia un contributo non tanto dei media mainstream, quanto di quelli digitali e, al tempo stesso, rendere la politica assolutamente comunicazione politica – perché quando non ci sono più i corpi intermedi non c’è la il riconoscimento di quelli che Lazarsfeld chiamava gli “opinion leaders”, cioè quelli che in qualche modo mediavano, come se fossero straordinari divulgatori sociali e politici, i saperi a persone meno preparate a capire la complessità di un mondo che stava cambiando. Quindi ha due gravi responsabilità la crisi dei corpi intermedi: il fatto che da questo punto di vista la politica diventa quasi nonsense, diventa solo retorica e comunicazione politica – questo l’ho studiato per la rivista Paradoxa in cui ho letteralmente preso atto con dati, anche lavorando su indicatori, che ormai la politica italiana è assoggettata alla comunicazione, sia in termini di linguaggi che di leader. Oggi può esserne un esempio la dichiarazione della nuova e brillante Vicesegretaria di Forza Italia che dice «Punteremo solo su persone di grande impatto per le prossime campagne elettorali». Beh, anche quella è una forma di servitù alla società della comunicazione: devi prendere quelli che sono rappresentativi di bisogni sociali e capaci di risolverli. Questo è il modo con cui mi collego al dibattito precedente, ma non possono non chiudere con il concetto di bene comune che è stato così ricamato da Rosapia Farese. È un concetto affascinante nella società moderna che tende a sterilizzare e americanizzare tutti gli strumenti interpretativi; una parola così quietamente legata alla nostra lingua, anzi al latino, come già detto prima c’è un riferimento addirittura in San Tommaso. Bene comune, sentitela risuonare questa parola perché non siamo abituati a legare l’idea dei beni, cioè delle risorse che rendono desiderabile la vita e degna di essere vissuta, non con l’aggettivo individuale o di consumo, ma comune, e cioè legati alla comunità, alla scoperta della nostra interazione. Sulla base di questa premessa, che come vedete è del tutto legata al paradigma che abbiamo condiviso insieme adesso, più brevemente, in meno di 10 minuti cerco di dirvi quali sono le basi concettuali che sostengono la forza interpretativa dei concetti di cultura immateriale – nell’ultimo intervento Rosapia ha parlato di beni invisibili, molto interessante questa definizione, io lavoro nel concetto di immateriali, ma non c’è bisogno di dirvi che è la stessa cosa – e li metto anche all’origine dell’affermazione dei concetti di capitale sociale e capitale culturale. I tempi in cui sono nati questi concetti ovviamente non sono mai lindi come gli studiosi desidererebbero, perché la cultura immateriale è diventata potente solo in questo secolo; prima c’erano dei riferimenti nell’antropologia culturale, nella sociologia della cultura, quando ci si ricordava di occuparsi dei costrutti della cultura, ma non posso dire che fossero codificati o definiti, perché i concetti diventano interessanti quando la cultura di essi dà una definizione rapida, assertiva, quindi che non ha bisogno di essere auto spiegata dall’esterno. Partiamo dal concetto di bene immateriale, che nasce pubblicamente, ovviamente: anche queste cose hanno sempre bisogno di interventi istituzionali, perché quelli a volte cambiano la storia e quindi significa che gli uomini riuniti in un’istituzione possono in qualche modo costruire definizioni che valicano anche la loro stagione umana e politica (penso in particolare a Ruberti). Nel 2003 c’è una celebre conferenza generale dell’Unesco, la 32esima ,che dura ben 17 giorni, da settembre a metà ottobre, a Parigi intitolata “Convenzione internazionale per la salvaguardia del patrimonio culturale immateriale”. È probabile che questa sia la prima volta che addirittura in un titolo di un convegno internazionale, in particolare dell’Unesco, c’è implicita l’idea che il concetto di patrimonio culturale sia immateriale, cioè roba da lasciare alle generazioni. Questa idea si traduce nel titolo di un evento così longilineo, quindi di una riflessione di ampia durata (17 giorni). C’è un grande studioso di disuguaglianze culturali, ormai morto, che si chiama Richard Hogger che scrive un libro che oggi non uscirebbe, non troverebbe nessun editore, intitolato “Proletariato e industria culturale”. Lui così definisce le disuguaglianze culturali, o meglio quella che noi oggi chiamiamo povertà educativa, culturale, eccetera. La povertà culturale secondo me è un concetto ancora più interessante per farla capire ai politici che hanno bisogno di un bel po’ di traduzioni. Ma dal punto di vista dell’elitismo delle definizioni la chiamano “deprivazione culturale”. Rifletteteci, c’è il “de” privativo e, al tempo stesso, “privazione” che significa che uomini possano vivere la loro vita senza accedere alla luce e alla forza della cultura e quindi significa che vivono quasi come automi, senza una stimolazione spirituale, culturale, cognitiva, come se la loro mente non venisse stimolata da concetti così emozionanti e durevoli nel tempo. Vado veloce perché questa roba che vi dicevo è del 2003. Cosa si intende in quegli anni per cultura immateriale? Capolavori viventi – e l’Italia avrebbe tutte le ragioni per essere la titolare al mondo – e al tempo stesso capitali cognitivi, quindi le cose di cui stiamo parlando: l’università, la ricerca, la divulgazione, la comunicazione esperta, che è altra roba rispetto alla comunicazione detta “di massa”. In questi 20 anni che ci separano dalla elaborazione della definizione, in una parola, di “patrimonio culturale” c’è stato un decennio che è stato profondamente segnato dal Ministro Ruberti che all’epoca, dopo essere stato Ministro del mio grande Ateneo, quello che grazie a Dio ha ripristinato l’antico nome di Sapienza dopo i fasti di Bonifacio, diventa anche Commissario europeo e lì lavora in modo strepitoso a dare una spinta al capitale culturale dandogli anche, in qualche misura, un suo contributo: era un professore di ingegneria sistemica e l’aggettivo l’ha aiutato più della disciplina, cioè la capacità di mettere insieme i discorsi, come abbiamo sentito prima nei ragionamenti che venivano fatti in particolare nell’ultimo intervento. Sentite questa definizione che usa un famoso antropologo italiano che si chiama Clemente e ha insegnato a lungo a Siena e ha scritto uno dei primi libri intitolati al patrimonio culturale e immateriale. Non è il migliore nelle citazioni, ma è il più antico, quindi per rispetto nei confronti di questo studioso, uso lui. «I temi di cui parla il patrimonio culturale si connettono con uno spazio sociale», già qui ci stiamo avvicinando alle cose che ci diceva poco fa Rosapia. Riprendo la citazione: «si connettono con uno spazio sociale, quello della società civile». C’è un’altra grande, folgorante, scoperta, tipica degli antropologi che vedono il mondo dal basso, non come fanno i sociologi che vedono le élite e i potenti. Società civile significa dunque che già ci stiamo avvicinando al concetto di bene comune che ancora, come tale, non è diffuso e non ha avuto fortuna – lo avrà poco dopo. «Un concetto che nasce contro le filosofie hegeliane che ovviamente vedono elegantemente famiglia, società civile e Stato (quindi anche corpi intermedi) come scale di articolazione di complessità sociale». La tematica poi viene ripresa da Gramsci nel libro celeberrimo, fondativo, forse il libro più moderno di Gramsci che è “Letteratura e vita nazionale”, cioè la scoperta che l’ethos di un popolo ha bisogno anche di un apparato simbolico e non sempre noi ce ne accorgiamo, come se non sapessimo che quello che resta di noi sono i rapporti e la cultura. La frase finale di questa citazione che fa proprio Clemente di Gramsci è quello di «descrivere l’articolazione sociale nella prospettiva di alleanze e analisi stratificate, ripresa successivamente ridiscussa nel contesto internazionale il patrimonio culturale indica i fattori positivi e progressivi dell’azione sociale organizzata dal basso» praticamente un’anticipazione di quello che già rappresenta l’esperienza a cui ha dato vita questa nostra amica che ci ha parlato fino a poco fa. Negli anni i due concetti di capitale sociale e capitale culturale cominciano ad affacciarsi alla porta del capitale immateriale, del capitale invisibile e qui si distinguono altri due studiosi che citerò: uno è André Gorz che per 10 anni girando tra la Francia e l’Europa dà concretezza al concetto di capitale immateriale e lo fa diventare, quindi, più vivente. La doppia catena che lui descrive, categoria della proprietà intellettuale – quindi il copyright, il diritto d’autore, le licenze, i brevetti, quindi la scienza che viene codificata – e quelli invece competitivi, il capitale umano (qui troviamo immediatamente il nostro tema), la capacità innovativa, l’efficacia dei processi organizzativi. Quindi vedete che queste parole non sono moderniste, ma hanno alle loro spalle due decenni. Tratto due sole cose in chiusura. La prima è il riferimento ai rapporti tra capitale culturale e economia, perché qui davvero Gorz diventa decisivo. «C’è una correlazione positiva, studiata dagli economisti», quindi qualche volta addirittura hanno anticipato i sociologi, non è un caso che l’economia contemporanea sia competitiva rispetto alle sociologie e alla psicologia sociale, «una correlazione positiva tra capitale immateriale e crescita economica». Non sembra vero. Significa che ogni passo indietro che noi facciamo rispetto ad un investimento sulla cultura significa favorire un impoverimento e lo è tanto più in un tempo in cui ovviamente l’Europa ci ha somministrato due concetti che sono diventati scontati e non sarebbero così se non ci fosse stata l’Europa e forse anche Ruberti, come quello di società della conoscenza e società dell’informazione. Sia Ruberti che Gorz erano sconvolti dalla simmetria di investimenti da parte degli Stati europei rispetto al fatto che la cultura produce partecipazione, produce valore – e qui c’è una bellissima citazione di Rullani, un grande economista se non sbaglio della Bocconi, che ci dice questa frase sublime: «la conoscenza produce valore anche perché genera senso». Non utili, ma senso, quindi coesione, partecipazione, senso di partecipare alla propria vita e di essere contemporanei in noi stessi. Chiudo con la promessa di riferirmi a un ex capo della Banca d’Italia, Ignazio Visco, il quale ha scritto, pochissimi anni fa, un libretto delizioso sul quale il Professor Gaudio, quando era Rettore della mia Università e io ero il suo Professore della comunicazione, costruì una inaugurazione dell’anno accademico. Nel libretto lui lavora sul concetto di competenze come traduzione semplice e in termini di capitale culturale del lavoro, delle nuove professionalità. Parte dalla società della conoscenza, e qui appunto al centro c’è il concetto di competenze intendendo «una dimensione che parte della formazione ma la traduce in una personalità culturale protesa all’azione». È di una modernità impressionante questo testo che fa capo anche ad un Nobel di quegli anni, tale Felps, perché lui ricostruisce in questo concetto anche l’idea che i lavoratori che non si formano o meglio che le imprese che non inducono, spingono, non sollecitano a formarsi – perché c’è anche bisogno di una spinta delle imprese – in qualche modo rimangono con i saperi con cui sono entrati, quindi non imparano nulla della loro vita. E lo traduce con questa frase finale che «il rendimento dell’investimento in conoscenza è più alto di quello di ogni altro investimento». Badate, che il Presidente della Banca d’Italia al terzultimo anno del suo mandato usi questa proposizione, cioè che non solo gli investimenti economici, ma quelli in conoscenza e dunque anche in capitale sociale, significa che siamo pronti a riconoscere che il nostro tempo può fare una scommessa fondamentale sulle persone, che è quella appunto del capitale sociale relazionale, come negli ultimi anni viene chiamato. Ma per questo riprendo una citazione di Paster, con cui chiudo: «I greci ci hanno dato una delle parole più belle del nostro linguaggio, la parola “entusiasmo” che, studiando l’origine semantica, significa “un Dio dentro di noi”. Felice è colui che porta un Dio dentro di sé, a questi uomini è affidato il futuro». Grazie a voi.
Benedetta Cosmi: Grazie Mario, portiamo con noi sicuramente la riflessione sul senso, perché poi a volte quello che sembra mancare nella società, a cominciare dalla critica al giornalismo, dove sembra che le notizie inondino tutti, però non portino con sé senso, non regalino alla società una visione di senso, e fino ad altri àmbiti che ovviamente tutti noi constatiamo amaramente tutti i giorni, è proprio quello. Anche quando si parlava dei giovani, si parlava della trasmissione, quindi anche eventualmente una critica sul mondo della scuola, c’è quello che di solito si vuol far diciamo così recuperare ma sembra che nessuno partecipi a quella causa che è, proprio, il senso. E allora mi va di dire, e ripasso la parola a voi: senso, partecipazione alla creazione di senso, che in fondo è anche l’antidoto alla noia, come lo stesso Moravia diceva, “l’assenza di relazione tra le cose è la noia” e quindi l’assenza di relazione tra le cose significa non trovarvi senso, che poi è il contrario di rete, che invece tende a legare e quindi costringe a trovare quel punto di congiunzione. Torniamo alle proposte e a te, Rosapia.
Rosapia Farese: Ringrazio moltissimo il professor Mario Morcellini, perché ha dato una visione molto approfondita a quelle che possono essere le soluzioni sostenibili e inclusive e che mi sento di dare. Soprattutto sono delle sfide, queste, legate allo sviluppo della persona e alla garanzia del ciclo della vita; sono delle soluzioni fondamentali anche per evitare quella deprivazione culturale di cui parlava il professore. Educazione e formazione continua, rete di supporto sociale, salute mentale e benessere, lavoro dignitoso ed equo, sostenibilità ambientale, partecipazione democratica, promozione della cultura e dell’arte. Vorrei sentire anche il professore e dare una definizione a quella che è la sostenibilità, lo sviluppo sostenibile. Come possiamo interfacciarci con questo sviluppo? In che modo ognuno di noi può dare un contributo a questa sostenibilità? Mi piacerebbe avere da parte di tutti voi un supporto a questo, perché secondo la nostra associazione, e secondo quello che penso anch’io, è fondamentale tracciare un percorso proprio per arrivare a questo bene comune. Grazie.
Benedetta Cosmi: Allora raccogliamo la tua domanda e la rilanciamo a tutti.
Mario Morcellini: Mi limito a replicare con una battuta alla sfida di definire la sostenibilità, che ovviamente è una sfida complicata, però per oggi la metto in questi termini: la sostenibilità è un equilibrio più avanzato con la terra, quella in cui siamo nati, l’ambiente, quella di cui Papa Francesco ci dice cose indimenticabili, e le risorse economiche.
Rosapia Farese: Credo che attraverso il potenziamento del capitale umano sociale e dell’humanitas noi possiamo tracciare veramente un sentiero luminoso verso l’innovazione responsabile e la crescita inclusiva. Ecco invito tutti, ogni individuo, le organizzazioni, le comunità, a unirsi a noi in questa missione vitale per costruire insieme un domani in cui ogni persona possa realizzare il proprio potenziale e contribuire pienamente al benessere collettivo. L’impegno della nostra associazione, il mio in primis, è verso queste idee di trasformare non solo le vite individuali, ma rafforzare le fondamenta stesse della nostra società, guidandoci verso un orizzonte di speranza e prospettiva condivisa. Terminerei con uno slogan, chiamiamolo così: innovare per unire umanità, comunità, sostenibilità. Grazie a tutti.
Benedetta Cosmi: Comunità è sicuramente una parola che ritorna e fa da filo conduttore un po’ a tutti i discorsi fatti finora. Non mi dilungo sul tema del bene comune, ma mi piaceva il riferimento allo sguardo della politica, perché in fondo è quello che cerchiamo di fare anche con il Laboratorio, cioè riportarlo lì dove l’attenzione non andrebbe da sola, proprio per i discorsi che facevi anche tu, Mario, sulla comunicazione, sulla differenza, sull’inseguire la comunicazione e farla diventare addirittura manifesto politico, anziché usarlo come mezzo di diffusione di un messaggio e quindi, a quel punto, è la politica a svuotarsi di senso. L’altro, volendo, ce l’ha anche l’Eurispes come claim perché dice «la ricerca è bene comune» cosa che mi sembra anche in questo caso sia vincente come espressione. Ovviamente un Paese che fa ricerca tra l’altro diventa attrattivo, ovviamente cambiano gli àmbiti di ricerca, di interesse; ci sono quelli più economici, se vogliamo, più etici, ma al di là dello sfondo su cui si basa, l’idea di fare ricerca significa non appiattirsi al “si è sempre fatto così” e di conseguenza è attrattivo per i talenti, per i giovani e per quelle potenzialità che citavi e cioè che bisogna far emergere. Quindi,Aldo, hai qualche altro riferimento?
Aldo Berlinguer: Sì intanto ringrazio tutti, gli interventi sono stati molto interessanti. Colgo una chiave delle cose che avete segnalato, ossia questo individualismo dilagante e questa assenza di comunità. Si tratta di un fenomeno non nuovo, lo troviamo in tanti contributi nella storia, nella letteratura, ne parlava Carlo Levi, ne parlava Edward Banfield quando nel suo saggio “The moral foundations of a backward society”, “Le fondamenta morali di una società arretrata”, parlava della Basilicata in particolare, ma del Mezzogiorno in senso più ampio, mettendo in evidenza questa totale assenza di sentimento comunitario, questo anteporre sempre se stessi e il proprio clan, diciamo, alla collettività. Lo hanno evidenziato anche tanti altri, è noto all’economia, basta vedere il rapporto che esiste in Italia tra debito pubblico e ricchezza privata; noto al fisco, basta vedere l’incidenza dell’evasione fiscale su quello che è un patrimonio pubblico. È noto anche alla politica, perché, guardate, non c’è solo il sovranismo, il populismo e altre varie derive che un po’ la animano: c’è anche questa pianta parassitaria terribile che si chiama clientelismo, dove il voto addirittura è diventato, direbbe il mio collega che ci segue da Bologna, un rapporto sinallagmatico, cioè io ti voto perché tu mi dia qualcosa in cambio, io non voto un’idea di paese, non voto una progettualità per la comunità, voto se mi fai assumere, se mi dai la speranza di un posto di lavoro, se mi condoni l’abuso edilizio, eccetera eccetera. Allora capite bene che quando anche il rapporto con la politica diventa intriso di un individualismo divorante, che non riesce a guardare minimamente a una prospettiva di futuro comune, le moral foundations si vanno sgretolando. Voglio sottolineare che tutto questo si acuisce proprio nelle aree minormente popolate. L’Italia non è tutta uguale, non è tutta la stessa cosa, l’individualismo è ovunque e i danni si contano, ma ci sono anche territori animati più da un approccio mutualistico, cooperativo, anche sul piano economico, alcune Regioni in particolare. Mentre purtroppo il nostro Mezzogiorno, comprese le Isole, si vanno avvitando in questa spirale dove l’individualismo non è solo l’effetto di un ritardo economico e sociale della serie “si salvi chi può”, ma è proprio una causa e forse una delle principali di questo ritardo socio-economico. Avete citato tante persone, sulle isole ne cito una che non è italiana: Marshall Sahlins, un antropologo americano che è scomparso di recente e studiava le isole. Ha fatto un saggio molto bello che si intitola “La parentela, che cos’è e cosa non è” chiedendosi: cos’è la parentela? È consanguineità? Non ci si riesce a rendere conto neanche in isole ormai quasi spopolate che quel piccolo nucleo è legato da una parentela, cioè non si riesce a capire che il nucleo comunitario è parte di sé stessi, non è alieno, non è qualcosa della quale in qualche modo approfittare, se si può, senza mai percepirsi un fattore comune della collettività. Io temo che se noi non agiamo su questa leva con forti iniezioni di comunitarismo, specie nel Mezzogiorno, ma non solo, sia nei processi convenzionali formativi, quindi nelle scuole, università eccetera, sia nei processi non convenzionali, (purtroppo oggi sono presidiati da questi investimenti privati che tra l’altro bombardano una parte limbica del nostro del nostra psiche, cioè non quella corticale, quella logica, quella razionale, quella fatta del quello che Jung chiamava il complesso a tonalità affettive, cioè un insieme disgregato di pulsioni primordiali) ma lì si stanno concentrando gli investimenti privati. Mentre quelli pubblici si concentrano sulla parte così della memoria, della nozione, del sapere anche se vogliamo tradizionale, la parte degli investimenti pubblici vanno tutti nella direzione della profilazione dell’individuo, del carpire le sue debolezze, le sue inclinazioni, i suoi desideri anche inconfessati, lavorando e investendo enormi patrimoni su questo. Questo forse ci dà il polso del dove stiamo andando e perché stiamo investendo dal lato privato su quello – e andrebbe monitorato e gestito meglio il processo – e dal lato pubblico troppo poco su quello, nel senso di non coinvolgere veramente. I professori universitari lo sanno, noi eroghiamo una prestazione al pubblico e in realtà non ci chiediamo fino in fondo chi è seduto nel primo e chi è seduto nel quarto banco, e infatti, come mi ricordano spesso i miei colleghi angloamericani quando li invito alle elezioni in Italia, mi dicono «sappiamo che siamo in Italia, sai da cosa? Dal fatto che gli studenti iniziano a riempire l’aula dal fondo». Ora è evidente che dobbiamo investire di più e meglio nel coinvolgere le persone ad assumere questa consapevolezza che esiste un quid collettivo di cui siamo parte integrante e dal quale non possiamo prescindere, questo specie al Centro Sud, nelle Isole, ovunque, nelle aree interne, un po’ a ogni latitudine italiana. Se noi non risolviamo questa sensibilità culturale che per ora è, devo dire, veramente una lacuna disarmante, che temo si stia anche acuendo, si fa fatica a immaginare uno sviluppo socio-economico basato sul capitale umano. Il capitale umano e sociale, cioè l’individuo con tutte le sue conoscenze, competenze, deve metterle a servizio di un progetto comune, non solo di un progetto individuale, altrimenti questa comunità non nasce mai.
Benedetta Cosmi: Sicuramente le nuove generazioni in questo hanno lanciato messaggi chiari, in alcuni casi li potremmo definire addirittura “nativi sostenibili”, e in altri casi quando criticano il proprio Paese e manifestano la loro disapprovazione nelle varie modalità, tra cui la disaffezione e altre forme apparentemente di distacco, in fondo chiedono proprio quello, cioè nuovi elementi di senso d’appartenenza, di poter fare di quelli che la Cassa Deposito e Prestiti definisce giacimenti culturali, poterne fare presidi di innovazione, farli diventare persino entrata anziché solo voce di spesa all’interno del bilancio pubblico, perché oggi vengono visti solo come manifestazioni da tutelare e non come qualcosa da far diventare attività di industria culturale alle quali molti laureati vorrebbero poter dare il proprio contributo. Però ovviamente servirebbe e servirà un’innovazione, un tipo di politica che andrà ad individuare in questi luoghi elementi di apertura. Fino a quando resteranno luoghi chiusi, non solo di mentalità chiusa, quando si dice la rivoluzione culturale, ma anche chiusi a ingressi da fuori, dalla capacità di attirare il diverso in tutte le sue fattispecie, e ovviamente anche l’idea di bene comune poi va a scontrarsi con l’idea che ognuno di noi fa parte del contesto. E allora una frase che vorrei regalare al dibattito di oggi è il “contesto siamo noi”, perché poi sembra sempre che tutto quello che non va parte sempre un po’ più in là rispetto a noi. Quindi il contesto siamo noi, anche nel senso positivo, cioè quell’elemento che inizia a fare la differenza, quell’elemento che inizia a portare e a vedere negli altri qualcosa di buono. Luigi, tu sicuramente sia nell’Osservatorio sia nell’incontro, dove praticamente avete radunato i massimi livelli della classe dirigente (a me ha sempre colpito il fatto che per esempio ci fosse il Vicepresidente del CSM considerato che il Presidente dovrebbe essere il Presidente della Repubblica, mi fa ridere che la carica più bassa che loro avessero era un Vicepresidente). Questo per dire che davvero si riunivano lì i top manager sia dei decisori politici, sia della classe imprenditoriale e che venissero richiamati ai princìpi che oggi qui noi abbiamo dibattuto, ma che fossero inchiodati anche loro alle loro responsabilità e a portare i casi. C’era una imprenditrice che raccontava i fallimenti anche nella governance familiare della propria azienda che in quel posizionamento aveva quindi schiacciato a ribasso un’industria che sarebbe potuta andare meglio, cioè le critiche e le autocritiche pure fanno comunque consapevolezza, aiutano quindi a fare quel salto in più.
Luigi Balestra: Gli Stati Generali per la ripartenza sono state un’occasione straordinaria e ne faremo un appuntamento fisso per confrontarci. Avevamo circa 80 interventori del mondo delle Istituzioni, del mondo dell’impresa, del mondo del sociale e ci siamo confrontati su plurimi temi. Quello che tu evocavi, e cioè la governance familiare, è una delle grandi questioni che agitano il sistema imprenditoriale italiano, perché la famiglia che molto spesso è fattore incentivante allo svolgimento dell’attività di impresa, però può diventare anche fattore di disgregazione, perché mentre nelle compagini tra soggetti estranei le liti nascono e sorgono all’interno dell’impresa, molto spesso nelle società familiari le liti sorgono nell’ambito familiare e si ripercuotono all’interno dell’impresa. Unitamente al fatto che la classe imprenditoriale vede molti imprenditori aver già superato i 60 i 70 anni, quindi con un grande problema di passaggio generazionale che è quantomai difficile da governare, di apertura anche verso l’esterno, questo è uno dei grandi nodi per certi versi irrisolti del nostro sistema, ancorché qui, io debba dire, esistono nel contesto del sistema normativo strumenti e meccanismi che potrebbero agevolare il passaggio generazionale e però manca una cultura in capo agli imprenditori di consapevolezza. Basti pensare a quel che è successo, per fare un esempio eclatante, con riferimento a Del Vecchio, cioè una società, un patrimonio che si capitalizzava per circa 30 miliardi, dove non c’è stato il passaggio generazionale, dove fino all’ultimo, fino al momento della morte, Del Vecchio (che ha fatto cose straordinarie) ha tenuto il timone dell’impresa e soprattutto ha spartito in maniera equa la sua attività, con problemi non irrilevanti. Su questo punto mi taccio e concludo rispetto a quelle che erano le sollecitazioni di Rosapia Farese, cioè quali sono le risposte che possiamo dare: lavoro dignitoso ed equo, anche qui si parla di lavoro povero, cioè la povertà del lavoro perché non dà mezzi sufficienti per sostentarsi e quindi dare ingresso effettivo al precetto costituzionale di quell’articolo 36 secondo il quale la retribuzione deve assicurare un’esistenza libera e dignitosa; sostenibilità ambientale, sostenibilità tecnologica. Dal mio punto di vista la risposta è sostanzialmente unica, poi si può declinare sotto molti piani: è un recupero dell’etica dei comportamenti, cioè l’etica dei comportamenti è assolutamente fondamentale. Può essere un’etica assolutamente laica, perché poi parliamo di morale religiosa, ma può essere un’etica completamente laica, che altro non significa se non fare il bene di tutti, tant’è vero che quando parliamo di responsabilità sociale di impresa e di bilancio etico significa che oggigiorno non è più il tempo dell’esasperato profitto, ma che in maniera equilibrata (certamente l’impresa deve fare profitto) ma deve tener conto anche di molteplici altri interessi di tutti coloro i quali sono coinvolti in un processo dinamico che è molto complesso e quindi assicurare il benessere della collettività facendo evidentemente del bene. Altrimenti rimaniamo sul piano dell’affermazione dei valori e non riusciamo a concretizzare quel che diciamo a livello già costituzionale tutti quanti è legittimo si attendano in termini di concretizzazione, e chiudo qui.
Benedetta Cosmi: Una parola che fa molto paura è la parola “potere”, tuttavia va affiancata all’etica dei comportamenti la consapevolezza che ognuno di noi ha potere di agire, decisionale, ha potere di influenzare, ha potere di voto nella proporzione di ciascuno, ha potere di dire di no, ha potere di dire di sì, che è anche un altro potere da esercitare, perché altrimenti non si sarebbe insomma propositivi e quindi anche risolutivi rispetto ad un elenco fatto solo di no. Quindi il potere, il contesto siamo noi, ce lo dobbiamo ricordare in ogni carica, in ogni ruolo, in ogni momento dell’agire privato e pubblico che esercitiamo, perché credo che questa sia la differenza rispetto alla classe dirigente di un tempo, che per certi versi aveva meno potere di usare i media, meno potere di raggiungere migliaia, centinaia, miliardi di persone, però quel potere che aveva lo usava in modo pesante, cioè nel senso che aveva percezione che da Amministratore delegato incideva, decideva. Adesso sembra che da una parte si sia frammentato questo potere, cioè sia per certi versi diffuso, e in quanto tale nessuno pensa che spetti a lui poter fare quella cosa, e a quel punto, pensando che ci sia sempre una lunga trafila di decisori che vengono accanto a lui, o prima di lui, con questa scusa, a cominciare dai politici, ma in fondo ognuno nel proprio ruolo, tutto sommato, collabora a quel malfunzionamento di un Paese. Quindi, speriamo di aver dato un contributo in tal senso, cioè nella consapevolezza che nel bene comune ognuno di noi ha un peso, un ruolo e un compito e anche una rete, più reti a cui fa riferimento da far conoscere tra di loro e spero che anche in questo siamo riusciti oggi. Ovviamente, vi ringrazio della partecipazione, ringrazio l’Eurispes di cui, come consiglio direttivo, faremo valore anche di quello che dite per il Rapporto Italia che è, come sapete, il core business dell’Istituto. Questo, però, vuol dire aiutare ad avere delle pratiche per tutti, cioè una sorta di sostegno nei momenti in cui solitudine, individualismo, insomma nelle fasi in cui al pessimismo cosmico accederemo tutti, e credo che oggi le nostre attenzioni siano nelle parole che avete dato, quindi ripeto: senso, comunità e tra tutte il discorso delle aree contro la desertificazione di servizi. Molte di quelle località che noi adesso consideriamo di serie B sono le stesse che poi scegliamo in un altro arco dell’anno, magari come turisti. È il paradosso nostrano quello di considerarle di serie B per 300 giorni all’anno e poi di considerarle favolose 60 giorni all’anno. Questa insomma la provocazione con cui concludo.
Aldo Berlinguer: Io rinnovo l’apprezzamento per le cose dette, per gli spunti molto interessanti, ma anche per il tuo attivismo e per aver promosso l’iniziativa. Ringrazio i nostri ospiti. Spero che ci saranno ulteriori occasioni per portare avanti il discorso, anche in termini di collaborazione coi vari enti, con associazioni, l’osservatorio, coi quali possiamo, appunto, tentare una collaborazione per mettere a fattor comune studi, ricerche e le attività sulle quali ciascuno di noi è quotidianamente impegnato. Quindi Grazie di nuovo a tutti e spero di rivederci presto.
Benedetta Cosmi: Grazie a chi ci ha seguito. Grazie a tutti, speriamo di rivederci.