Atti primo incontro Laboratorio Eurispes sul capitale umano
Primo incontro del Laboratorio Eurispes sul capitale umano
“Le infrastrutture del capitale umano”
Venerdì, 19 febbraio 2021
Relatori:
Gian Maria Fara, Presidente dell’Eurispes
Daniele Manca, Vicedirettore del Corriere della Sera
Ferruccio Resta, Rettore del Politecnico di Milano e Presidente Crui
Coordinatrice:
Benedetta Cosmi, giornalista e scrittrice
Cosmi:
Ben arrivati al primo incontro del Laboratorio Eurispes sul capitale umano. Oggi avremo degli interlocutori che senz’altro sapranno offrire spunti e stimoli su tanti temi: Ferruccio Resta, Daniele Manca e il Presidente Fara. È qui per un saluto, l’avvocato Angelo Caliendo, componente del Consiglio Direttivo dell’Istituto,
Caliendo:
Grazie, ringrazio il Rettore Resta e il Vicedirettore del Corriere della Sera per la partecipazione a questo webinar, e la bravissima Dottoressa Cosmi che coordinerà, per l’Eurispes, questo nuovo, importante e fondamentale Laboratorio sul capitale umano. Il lavoro e la formazione rappresentano il futuro del nostro Paese, e mettere insieme gli attori principali – la parte pubblica e quella privata, le imprese e i lavoratori – è un compito importante, che rientra nelle corde dell’Istituto.
Cosmi:
Partirei con una domanda al Rettore: lo scorso anno è diventato Presidente della Crui – Conferenza dei Rettori delle Università Italiane, quindi ha un territorio più vasto rispetto a quello rappresentato solo dall’eccellenza della Lombardia e del Politecnico di Milano, di cui è Rettore. La sua visione ci aiuta molto a comprendere quelle che possono essere le disuguaglianze sul territorio, ma anche le eccellenze. Le chiederei, appunto, qual è la filiera che immagina intorno alle infrastrutture del capitale umano? Quali sono i componenti di questa filiera che va unita e fatta lavorare in sinergia?
Resta:
Sono diventato Presidente della Conferenza dei Rettori delle Università Italiana il 20 febbraio del 2020. Tornavo da Roma e sentivo sui notiziari del primo caso a Codogno, il famoso Paziente Zero. Oggi siamo praticamente a un anno da quella giornata, perché domani saranno passati 365 giorni da quegli eventi che hanno cambiato il mondo. Tutto quello che avevo immaginato quando mi sono presentato alla presidenza della Conferenza dei Rettori delle Università Italiane – programmi, innovazione nella didattica, progetti – è stato completamente riscritto dagli eventi. Quindi, per rispondere alla domanda, vorrei estendere il tema e non circoscriverlo alla formazione. La società è come un organismo vivente, composto da tanti sistemi – il sistema nervoso, quello circolatorio, muscolare, scheletrico. Allo stesso modo la società è costituita dal sistema della formazione del capitale umano, il sistema delle risorse (naturali, economiche), quello delle infrastrutture – siano esse abitative, viarie, della connettività – e, naturalmente, tutto il mondo del lavoro e della finanza. Pensare a una società, a un organismo debole in uno di questi suoi sistemi, significa non capire che la società è fortemente connessa. Quando si parlava della Fase 2 della ripartenza (a maggio/giugno) e si cercavano regole di partenza – la scuola deve organizzarsi in questo modo, il lavoro in base ai codici Ateco, la mobilità con altri criteri – non si è tenuto in considerazione il fatto che la società è fortemente interconnessa e che, naturalmente, non si può pensare di potenziarne una parte a discapito delle altre. Quello che risulta necessario è che, in qualche maniera, noi dobbiamo pensare alla infrastruttura del capitale umano come qualcosa legato a tutti quelli che sono gli aspetti caratterizzanti della società. Naturalmente, la filiera – e arrivo quindi al fulcro della domanda – parte dalla scuola, primaria e secondaria, che ha affrontato una grandissima difficoltà quest’anno e che, nonostante le tantissime iniziative estremamente importanti, volenterose, generose di alcuni dirigenti, insegnanti e presidi, non è riuscita, come struttura, ad organizzarsi e a cogliere l’opportunità per trasformarsi; è rimasta sostanzialmente un po’ in difficoltà. Il tanto criticato problema dei banchi a rotelle dimostra che quella era l’unica opzione possibile che non toccava lobby, non “pestava piedi”, e che siamo arrivati a quella soluzione perché non siamo stati in grado di reimmaginarci. Il tema della formazione, quindi, va ripensato, a parer mio. Sicuramente va ripensata la scuola, soprattutto nella sua connessione con la formazione terziaria, prestando la massima attenzione a tutto quello che è il tema dell’orientamento. Ci lamentiamo di non avere ragazzi e ragazze che sono iscritti alle STEM, ci lamentiamo di un mismatching tra domanda e offerta del mondo del lavoro, ma non capiamo che la vocazione universitaria, la vocazione verso la professione, arriva durante le scuole secondarie e, quindi, da lì dobbiamo partire per un ridisegno rispetto a quello che sarà poi il momento della scelta del lavoro. Per ciò che riguarda la formazione terziaria, dobbiamo fare una riflessione significativa: ci siamo, come spesso accade, divisi tra chi mette l’accento sulla necessità di avere tante figure professionalizzanti, di ITS, di lauree professionalizzanti, e chi, dall’altra parte, evidenzia anche una necessità di alta formazione. La Germania ha quattro o cinque volte il numero di dottorati di ricerca rispetto all’Italia, e sto citando un paese che, comunque, ha una struttura tipicamente manifatturiera, simile alla nostra. Noi percepiamo questi due àmbiti – laurea e figure professionalizzanti, universitaria e dottorato – quasi come fossero concorrenti, mentre sono parte di un unico disegno, e andiamo avanti senza una vera pianificazione, senza la definizione di quanti saranno, non solo il numero di medici, ma anche di ingegneri, di laureati nelle life science, di filosofi. Abbiamo un po’ paura di usare il numero chiuso, perché lo viviamo come fosse una circostanza che riduce le libertà, ma dobbiamo ricordare che dobbiamo pianificare, e questo è il momento di farlo. Arriviamo, infine, all’ultima tappa della filiera che è quella dell’inserimento nel mondo del lavoro, il quale, naturalmente sta cambiando: non è più un momento preciso, non c’è più un passaggio netto dalla fase in cui abbiamo completato il ciclo di studi a quella in cui abbiamo voltato pagina e ci siamo inseriti nel mondo del lavoro, con più o meno successo. Ecco, questa discontinuità tra questi due momenti della vita sicuramente non ci sarà più; sarà sostituita da un percorso di continua formazione come conseguenza dell’evoluzione della società e delle tecnologie, che avranno dinamiche talmente rapide da costringerci a tenerci continuamente informati e formati. Queste sono un po’ le basi sulle quali dovremmo ricostruire e reimpostare la filiera della formazione.
Cosmi:
Sicuramente il lifelong learning è un tema che anche il Dott. Manca non è insolito “abitare” (siamo abituati a leggere i suoi articoli su L’Economia, il lunedì). Il lifelong learning, l’apprendimento durante tutto l’arco della vita, chiama in causa anche gli adulti e i luoghi, visti come uno spazio di conservazione dei beni, mentre dovrebbe trattarsi di un circuito vitale e attivo – penso al caso delle biblioteche inglesi all’interno delle quali potevano essere attivate delle start up. Con questa suggestione passo la parola al Vicedirettore Manca.
Manca:
Ovviamente, io non sono un esperto, faccio un mestiere strambo che è quello del giornalista: quando va bene si prendono le informazioni e le si inseriscono in un contesto, quando invece va male addirittura le informazioni si inventano. È chiaro che posso fare soltanto un discorso che parte da impressioni. Secondo me, proprio perché stiamo parlando di capitale umano, dobbiamo in qualche misura fare un passo indietro ed evitare di pensare al capitale umano come lo intendeva Adam Smith. Questa dizione, “capitale umano”, a me dà anche un po’ fastidio. Una delle cause principali delle difficoltà del nostro Paese deriva anche dal fatto che i media non hanno svolto compiutamente il loro mestiere, parlando, per esempio, di capitale umano, che, secondo me, è una cosa che ha senso nella misura in cui ci si mette d’accordo su che cosa significhi questa espressione. Ma, poiché in Italia si fa tutto tranne che mettersi d’accordo sulle premesse, probabilmente conviene utilizzare altre espressioni – come, ad esempio, lavoratori, studenti, eccetera – che ci rendano più vicini alla vera scommessa, che era poi quella che diceva Presidente della Crui. La vera scommessa qual è? È riuscire a fare in modo che le persone, i cittadini di questo Paese, abbiano un ruolo che non sia semplicemente quello che hanno avuto finora. Negli ultimi venti anni i cittadini hanno avuto un ruolo molto passivo, ed hanno potuto esprimerlo soltanto attraverso il voto. Non si sono sentite, in questi ultimi due decenni, le voci dei cittadini, dei lavoratori, degli studenti e via dicendo. Le parole sono importanti, altrimenti perdiamo di vista quello che è successo, e sta succedendo, nel nostro Paese e in tutto l’Occidente, ossia una progressiva perdita dei ruoli delle persone nelle varie fasi della loro vita. La perdita di importanza di organi come Confindustria, sindacati e via dicendo, non è stata supportata poi dall’ingresso di altre voci, c’è stata soltanto una perdita d’identità. Dico questo perché – e qui entriamo subito nell’attualità – con il Governo Draghi improvvisamente si è cominciato a dire «ecco che siamo tornati nella fase della competenza», e ancora una volta non ci si mette d’accordo sulle premesse. Che cosa si intende per competenza? Una persona che sa, che conosce? Una persona che ha preso la laurea? Ribadisco che le parole hanno un peso e, quando si discute di capitale umano, rimango un po’ interdetto perché preferirei che si esplicitasse che cosa si intende. Ed è forse questo il difficile compito che l’Eurispes, attraverso questo nuovo Laboratorio coordinato dalla Dottoressa Cosmi, si è assunto: spiegare e comprendere che cosa si intende per capitale umano. Prima di poter fare ciò, secondo me, dobbiamo chiarire che cosa significa “competenza”. Andando a scorrere, per esempio, il curriculum delle persone che sono state chiamate al Governo da Draghi – ma anche il curriculum di Draghi stesso –, ci accorgiamo di una cosa che, spesso, in Italia non viene messa in luce: nel nostro Paese, la competenza viene equiparata al sapere, alla conoscenza, ma ci si dimentica che in realtà è il risultato di una fusione tra sapere, conoscenza e capacità di fare, di agire. Senza quest’ultimo tratto, la competenza è zero. Allora, se noi mettiamo – con tutto rispetto per il Presidente Conte – un professore di diritto a capo del Governo, dovremmo essere coscienti del fatto che il professore di diritto, in quanto tale, avrà una competenza in àmbito governativo che tendenzialmente sarà incompleta. Se il presidente Conte ci sta ascoltando, sappia che non è che ce l’ho con i giuristi, ce l’ho, in generale, con un concetto di competenza che non mette assieme la capacità di fare ed il sapere. E allora, se andassimo a vedere il curriculum di Draghi, scopriremmo che non fa il Presidente del Consiglio perché è esperto di economia o perché ha studiato con il premio Nobel Franco Modigliani o perché poi ha insegnato a Princeton. Probabilmente potrà fare bene il suo mestiere di Presidente del Consiglio, perlomeno lo speriamo, perché nel 1986 era Direttore Esecutivo della Banca Mondiale e lì ha avuto modo di applicare le sue conoscenze al saper fare. Questo aspetto, secondo me, passa molto spesso in secondo piano. Non so se ricordate quando alcune famiglie si lamentarono che i loro figli, durante l’alternanza scuola-lavoro, andavano a lavorare al McDonald’s, non considerando che quella poteva essere la migliore esperienza per uno studente, perché il McDonald’s ha la migliore catena del servizio che si possa immaginare, quindi, il palcoscenico migliore in cui la competenza deve essere applicata a qualcosa del fare che è complesso ma, allo stesso tempo, semplice. Quindi, un ragazzo farebbe molto bene ad andare al McDonald’s a fare la scuola-lavoro, tanto è vero che, appunto, nei curricula quando si legge che una persona, che ha preso 110 e lode, ha anche altre esperienze oltre a quella accademica (volontariato, sport, eccetera), immediatamente entra nel faro delle aziende. Ecco, questa cosa secondo me è importante: capitale umano significa creare competenze intese come insieme di conoscenze, esperienze concrete e capacità di fare. Un’altra cosa che va detta è questa: stiamo andando verso un’economia della conoscenza, tutti quanti siamo convinti di andare in quella direzione. Ma attenzione, anche qui c’è un altro tranello. Siamo portati a pensare che ci sia bisogno di lauree STEM, come ci diceva anche il Professor Resta, perché c’è il mismatching, c’è bisogno di scienza – intesa come matematica, engineering e via dicendo –, però c’è il tranello che è quello della gioventù. Siamo un Paese abituato a non sfruttare le esperienze, noi “bruciamo” le persone. Al contrario è avvenuto quando siamo riusciti su settanta governi, per i primi 50/60, ad utilizzare più o meno le stesse persone. C’erano delle porte girevoli per cui Andreotti ha fatto più di sette mandati come Presidente del Consiglio e durante molti altri era Ministro da qualche altra parte. Invece, negli ultimi anni abbiamo preso competenze e saper fare e le abbiamo buttate nel cestino per via di un malinteso giovanilismo, per poi scoprire che gli Stati Uniti, per rimettere in sesto il sistema America, si affidano un signore di 78 anni. Questo ci fa comprendere che noi, come Paese, non sfruttiamo l’esperienza. Rischiamo di commettere un ulteriore errore, se non riusciamo a capire che l’economia della conoscenza non è attuabile senza la competenza (intesa come sapere e saper fare) e senza l’esperienza. Ecco, noi siamo un Paese che ha paura dell’esperienza. Se facciamo il salto verso l’economia della conoscenza, sicuramente abbiamo bisogno di competenza e saper fare, ma dobbiamo stare attenti a non perderci per strada tutte quelle personalità che hanno agito fino ad ora. Basti pensare ai Presidenti del Consiglio che abbiamo avuto negli ultimi dieci anni e si potrà notare che questo Paese non li sta utilizzando.
Cosmi:
In realtà questo è un Paese che utilizza poco tanti aspetti del proprio potenziale, basti pensare al segmento dei giovani che vanno all’estero, ma anche a quelli che rimangono e trovano poco spazio per poter esprimere le loro capacità e competenze. Passo nuovamente la parola a Ferruccio Resta: in questa incapacità di puntare anche sul potenziale, l’Università, che fa ricerca, cosa è costretta a fare? A sperimentare, a tentare la carta del “non già visto”? Altrimenti si rischia di replicare sistemi e schemi che non sempre hanno prodotto buoni risultati.
Resta:
L’Università è un po’ lo specchio dell’Italia, quindi, luci ed ombre del Paese le ritrovi esattamente nel sistema universitario. C’è un’Università che è vicina al proprio territorio e quindi, essendo molto diversificati i territori, sono diversificate le università – come è giusto che sia. Ci sono università che non riescono ad uscire – come dice il Presidente Fara – dalla tradizione e dall’incapacità di cambiare, di intercettare i cambiamenti. Ci sono università, invece, che si sono messe in gioco, che si confrontano, che cercano in qualche maniera di essere parte di un circuito a livello internazionale. Facendo un confronto tra il sistema universitario italiano e quello europeo – se ci concentrassimo su sistemi del Far East o su quello americano, ci troveremmo di fronte a situazioni molto differenti –,trovo siano confrontabili in termini di governance, di valutazione (veniamo valutati ogni anno da un’agenzia di valutazione preposta) e anche, in qualche caso, in termini di Pubblica amministrazione. L’anno scorso, abbiamo scaricato a terra quasi un miliardo di investimenti sull’edilizia a livello nazionale e forse siamo stati l’unica area della Pubblica amministrazione che ha veramente colto lo “sblocca appalti”. Siamo sicuramente poco europei come dimensioni, nel senso che abbiamo un numero di ricercatori e di rapporti tra ricercatori e studenti basso, e sicuramente siamo poco europei in termini di semplificazione di regole. Oggi, per creare un nuovo corso di laurea si deve sottostare a delle direttive dettate venti anni fa, nonostante si stia parlando di quelle che sono le lauree che servono ad identificare quei profili utili ad intercettare le sfide del domani. Un laureando che si iscrive oggi, nel migliore delle situazioni si laurea tra tre o cinque anni e, quindi, dobbiamo comunque avere una flessibilità ed un’autonomia per la flessibilità maggiori. Daniele Manca ha usato, a mio parere, una chiave di lettura estremamente interessante perché, durante tutto il suo intervento, c’era una parola che è rimasta e che lo ha attraversato in maniera trasversale: il concetto di esperienza. A questo riguardo mi ricollego su due temi. In primis, quest’anno ci ha insegnato che siamo sostanzialmente ignoranti e incapaci di gestire situazioni complesse. Che cosa è la gestione della complessità? Esiste una misura oggettiva per quantificare la complessità? La risposta, naturalmente, è no. Io sono certo di essere in grado di gestire una Pubblica amministrazione da dieci persone, perché l’ho fatto venti anni fa; poi sono stato Direttore di Dipartimento da 200/300 persone (l’ho fatto per nove anni); adesso, ho fatto per sei anni il Rettore di un’università da 40mila studenti e da 5mila dipendenti. Fino a questo livello di complessità ho l’esperienza per gestirla, perché l’ho fatto per sei anni, ma non è detto che io abbia le capacità per gestire una cosa che ha dieci volte queste dimensioni, non dobbiamo darlo per scontato. Questo esempio fa riferimento solo alle dimensioni di un’organizzazione, ma poi dobbiamo parlare anche di discipline: se mi occupo di mobilità e infrastrutture, non è detto che sia in grado di occuparmi di sostenibilità, di ambiente ed energia. Non è detto che se ho studiato per vent’anni il ponte sullo stretto di Messina posso parlare di idrogeno con conoscenze e competenze, pur essendo un ingegnere industriale. Esperienza vuol dire averlo fatto, saperlo fare. Se fosse stato organizzato un anno fa, questo webinar sarebbe stato in presenza e avremmo parlato della necessità di sviluppare le soft skills, di fare delle lezioni di soft skills, ma queste capacità (gestione di una situazione complessa, dei rapporti umani, capacità di leadership, di problem setting) si acquisiscono con l’esperienza. Nessuno si laurea con quelle capacità, bisogna essere in grado di svilupparle più o meno bene, affrontando le difficoltà e vivendo esperienze che siano formative. Esiste un percorso di crescita che deve essere fatto gradualmente e non può essere accelerato più di tanto perché gli studenti di adesso sono bravissimi, sono diversi, ma sono più o meno la stessa persona che ero io nel 1980 quando studiavo all’università. Sono più informati, più mobili, forse più fragili, meno duttili, però tendenzialmente il contenitore quello è e non possiamo accelerare il loro percorso formativo in maniera più significativa. Quindi, serve una conoscenza, servono basi robuste – che siano STEM, umanistiche o sociali –, servono le fondamenta e su quelle dobbiamo costruire. Infine, dobbiamo cominciare a esporre le persone a delle esperienze, sempre più internazionali, sempre più progettuali – di qualunque natura esse siano –, sempre più diverse; è necessario creare una contaminazione di saperi. La seconda cosa che abbiamo imparato è che il problema del Covid-19 non era sanitario, organizzativo, digitale. Abbiamo fallito in tutte le dimensioni: non siamo riusciti a fare il tracking, non siamo riusciti a organizzare correttamente un piano per la somministrazione dei vaccini antinfluenzali – non parliamo degli altri perché siamo ancora tutti con le dita incrociate –, non siamo riusciti a contenere la diffusione del virus, a gestire i focolai e non siamo stati in grado, in qualche maniera, di prevederlo. La complessità è estremamente significativa.
Cosmi:
Dal punto di vista della contaminazione dei saperi, su un antico blog del Corriere.it era stato pubblicato un mio articolo su come, per esempio, in altri paesi sia possibile scegliere gli indirizzi di studio. Esiste una diversificazione degli indirizzi e si possono scegliere le singole materie, perché ogni individuo è diverso e può avere bisogni diversi. Così, si riescono a conciliare meglio anche le eventuali richieste del mercato, delle aziende, del territorio, della famiglia, dello studente e degli insegnanti mentre, nella rigidità scelta a monte dal Ministero, che impone gli indirizzi, non potrei mai arrivare ad un’offerta completa che risponda a tutte le esigenze. Da questo punto di vista, da noi c’è questa rigidità.
Resta:
Se si pensa ad un ingegnere dei dati del domani – che si occupa di Intelligenza Artificiale o algoritmi etici –, che non abbia fatto un po’ di sociologia, di analisi dei comportamenti, di filosofia e di etica, risulta ovvio che non sarà assolutamente in grado di affrontare le sfide del futuro, così come credo che una carriera umanistica che, in qualche maniera, non affronta le potenzialità dell’Intelligenza Artificiale o dei dati, rimarrà completamente esclusa dal mercato del lavoro di domani. Non è che se noi mettiamo dei vincoli, il mercato ci aspetta. Il mercato andrà avanti, le professioni cambieranno e se non le occuperanno i nostri figli e le nostre figlie, i nostri studenti, le nostre studentesse, le occuperà qualcun altro. Con quei vincoli e con quella rigidità, stiamo, di fatto, non preservando noi stessi, non dando ai nostri futuri giovani studenti e studentesse armi di qualunque tipo, necessarie per affrontare il futuro. Gli stiamo spuntando le armi.
Cosmi:
Tra l’altro, le scuole sono state molto spesso accorpate: sotto lo stesso dirigente ci sono indirizzi ormai diversissimi tra loro, per cui sarebbe davvero facile lasciare la possibilità di fare percorsi più personalizzati e individuali, perché, nello stesso istituto, nello stesso organico di docenti si hanno tutte le competenze, le potenzialità e gli insegnamenti. Questo squilibrio si vede anche quando, in alcuni articoli di giornale si cita qualche studente, che sembra un genio perché vuole conseguire tre lauree, in quanto vuole competere con un suo coetaneo americano, straniero, che per avere quel tipo di qualifiche aveva introdotto nel suo percorso di studi alcune materie specifiche, mentre da noi è necessario seguire tre facoltà diverse per poter avere quella visione di cui si parlava poco fa. In questo, non sarebbe assolutamente male una battaglia comune – magari anche con l’Eurispes – per capire la fattibilità e la domanda.
Resta:
In Italia, uno studente non può iscriversi a due università contemporaneamente, perché altrimenti il database del Ministero non riuscirebbe ad associarlo ad un’università A o B.
Manca:
Mia figlia, adesso vive in Francia, è medico e voleva iscriversi a un corso di laurea in Relazioni Internazionali a Torino e non l’ha potuto fare. In Francia glielo permettevano e adesso vive lì.
Cosmi:
Non si tratta, quindi, neanche di una scelta ideologica ma, addirittura, di un database. Ancora una volta, i fondi pubblici, che dovrebbero aiutare l’Istituzione dell’educazione, in realtà sono un freno all’innovazione e allo stare al passo coi tempi.
Manca:
Faccio un esempio a me vicino: il Master in Giornalismo dello IULM. Ovviamente, un master basato sulla multipiattaforma, perché le informazioni ormai viaggiano su piattaforme delle quali i media sono una parte molto relativa. Il Master è, per il 70%, fondato su multipiattaforma – da Google, passando per Facebook e via dicendo. Guardando tutti i corsi di studio dell’università non ce n’è uno che tratti di giornalismo nell’era digitale, o di un qualcosa che spieghi ai ragazzi che vogliono occuparsi di comunicazione (lo IULM è specializzato in quello) il giornalismo nell’era digitale. Allora, sono andato dal Rettore Gianni Canova a proporre la mia idea. Lui l’ha accolta positivamente però, ha specificato «lo fai tu, a contratto. Dimmi quante ore vuoi, però, rimane una cosa tra me e te. Io non posso neanche pensare di cominciare a istituire una cattedra perché, intanto, una volta che l’hai fatta te la tieni, e poi perché, probabilmente, ci arriveremo chissà quando a farla». Ecco, è questo il tema: se il Politecnico di Milano, quando istituiva uno dei suoi corsi, avesse cercato l’esistenza di qualche legge che ne ostacolasse la creazione, sicuramente l’avrebbe trovata ma, per fortuna, sarebbero andati avanti nonostante le eventuali problematiche che si sarebbero presentate. L’altro tema, secondo me, se discutiamo, appunto, di persone, lavoratori, di studenti, di professionisti, è quello dell’accountability. Per questo dobbiamo smettere di parlare di capitale umano, perché sennò gli diamo una tendenza economicista. Facciamo fare ai ragazzi un bel corso di soft skills, poi ci aggiungiamo un po’ di scuola-lavoro, qualche altra esperienza formativa ed ecco che abbiamo il capitale umano formato per l’Italia del 2030.
Cosmi:
Professor Resta, siamo arrivati al termine del suo primo anno come Presidente della Crui e le chiedo: qual è l’aspetto del suo progetto a cui è stato costretto a rinunciare, almeno temporaneamente, a causa dell’emergenza che è emersa?
Resta:
Quello che mi è mancato di più è la presenza. Comincio veramente a soffrire questo schermo digitale piatto, che in qualche maniera ci tiene separati; è stato un bellissimo giubbotto di salvataggio in un mare in tempesta, ma di cui, prima o poi, dobbiamo veramente liberarci. La presenza è molto importante, soprattutto per andare a conoscere i colleghi – i rettori di tutte le 84 università della Conferenza dei Rettori –, permette di andare a visitare le loro università, entrare nelle loro aule e conoscere quelli che sono i loro territori. In alcuni casi siamo riusciti a fare anche qualcosa in più rispetto a quello che avevo previsto; per esempio, tutto il tema della innovazione della didattica digitale, su cui si stava ragionando, è stato accelerato. Quello che è mancato riguarda, sicuramente, tutta la parte internazionale. Da questo punto di vista, sono stati sospesi programmi di campus abroad, programmi in cui non si trattava più dell’università singola ma di reti di università che provavano a costruire della progettualità internazionale. Insieme alle università di Bologna, Roma, Napoli e Firenze volevamo creare la prima università italiana nel Corno d’Africa; avevamo già fatto due missioni per insediarci anche in quel territorio ma le procedure sono state sicuramente rallentate dalla pandemia. L’altro tema che a me sta molto a cuore è quello dell’innovazione, del trasferimento tecnologico e del rapporto con le imprese. Io posso contribuire all’arricchimento della Conferenza con questo argomento, che fa parte del mio background, perché, chiaramente, essendo stato Rettore del Politecnico è quasi dato per scontato che questo tipo di esperienza faccia parte del nostro dna. Credo anche che in altri territori ci sia la necessità di costruire una missione della singola università, legata a una vocazione territoriale; cioè, dobbiamo sfruttare le tante differenze territoriali mentre, invece, cercare di uniformarle sarebbe un disastro. Si pensi a università inserite in territori che hanno nel turismo, nella Storia delle grandissime potenzialità; potrebbero essere delle grandi academy uniche al mondo – penso alla Sicilia, a Matera. Per cercare di sviluppare al massimo le proprie potenzialità, si deve andare a cercare una vocazione specifica, sia disciplinare sia di formazione. Secondo me, questo è un disegno che si poteva e si può tentare di realizzare. Chiaramente, tutto questo è reso un po’ complicato dalla burocrazia. Io sono rettore da quattro anni e due mesi ed ho visto sei ministri. In qualche maniera, sono riuscito a fare tutto quello che speravo di fare durante il mio mandato al Politecnico di Milano, nonostante sia cambiato un ministro ogni otto mesi. È naturale che un po’ di continuità ministeriale aiuterebbe da questo punto di vista, oppure no, non saprei dire con certezza.
Cosmi:
Lei, Dottor Manca, cosa ne pensa del Next Generation EU? Ci aiuterà a sbloccare la situazione e ad andare nella direzione indicata dal Rettore Resta? O le priorità sono talmente tante che non riuscirà a farsi spazio tra queste?
Manca:
Secondo me no, perché dagli spunti che sono emersi da questo incontro, è evidente che non c’è un problema di risorse. Il Next Generation EU è un programma nel quale il numero è più importante di quello che c’è scritto dentro. A Bruxelles non è che sono poi tutti quanti fessacchiotti. Loro sanno che il nostro Paese ha bisogno di numeri e di risorse, ma sanno anche che non è quello il problema. Ci sono stati dati 209 miliardi ma, di fatto, quanti ne verranno usati? Per questo motivo, a parer mio, il Next Generation EU in realtà non conta. In Italia siamo molto nominalistici e in certi casi tendiamo a dimenticarci dell’importanza della sostanza. Dobbiamo, in qualche misura, uscire fuori dai luoghi comuni (mancanza di risorse, mancanza di leggi, mancanza di riforme, eccetera) e rovesciare completamente il tavolo per passare al lato delle soluzioni. Evitiamo di fare le “rivoluzioni” – che rischiano solo di creare ulteriori problematiche –, facciamo cose che possano funzionare. Anche quando parliamo di capitale umano, questa deve essere un po’ la bussola: occupiamoci delle cose che abbiamo e vediamo di farle, poi ad aggiustare si fa sempre in tempo. Può apparire superficiale come discorso, ma nel paese dei TAR, non lo è.
Cosmi:
A me piace l’approccio di Ferruccio Resta perché, nel guardare alla dimensione internazionale, sprovincializza i territori, le province e le università delle varie zone. In questo modo, l’Italia diventa un paese attrattivo, che ha un equo scambio tra chi va e chi viene.
Resta:
Io combatto, in ogni occasione, il concetto che abbiamo in Italia, secondo cui quando si parla di una proiezione internazionale si vuole indicare obbligatoriamente l’estero, come fossero sinonimi: internazionale vuol dire fuori dalle Alpi. Non è così. Si può essere internazionali a Milano, si può essere internazionali a Roma o a Palermo, basta avere delle relazioni internazionali, una comunità multidisciplinare, multietnica, multi sociale. È necessario inserire in una rete internazionale il nostro Paese, le nostre città – in fin dei conti sono queste ultime che fanno da driver – che saranno i poli attrattori internazionali dei loro territori. Ogni città dovrebbe cercare di comprendere quali sono i suoi punti di forza principali e concentrare in quegli àmbiti e settori le proprie risorse umane, economiche, di progettualità, creative. Magari alcune città ne avranno di più, altre, più piccole, qualcuno in meno. In ogni caso, secondo me, questa è la via da seguire, facendo affidamento su quelle che sono tutte le Istituzioni, di cui l’Università è una parte fondamentale perché è il polo attrattore di futuro; se una città non riesce ad attrarre giovani, il problema non sarà un domani solamente di quella specifica università. Per esempio, quando le università milanesi non saranno più in grado di attrarre 200.000 ragazzi a Milano, il problema non sarà esclusivamente delle università ma anche delle imprese, delle istituzioni, dei commercianti e della città nella sua interezza. Per evitare che ciò avvenga è necessario individuare quali siano i punti di forza principali, progettare delle collaborazioni specifiche e dare una spinta allo sviluppo.
Cosmi:
Farei chiudere questo incontro al Professor Gian Maria Fara, Presidente dell’Eurispes, per una panoramica su quelli che sono gli obiettivi dell’Istituto, le attività che svolgono gli Osservatori Permanenti, il Rapporto Italia che ogni anno ci regala una fotografia istantanea del Paese.
Fara:
Devo confessarvi che sono profondamente deluso perché voi siete riusciti a mortificare la mia naturale vocazione polemica, purtroppo sono d’accordo con voi su tutto, il che mi fa sentire veramente in imbarazzo. A questo punto, il problema che vi pongo è un altro: dal momento in cui l’Università, l’informazione e la Ricerca sono d’accordo, come è possibile che questo Paese non riesca a funzionare? Vorrei rimarcare alcuni passaggi. La vostra conversazione, il vostro intervento, sono stati una lezione. Ho avuto la possibilità di imparare e sono totalmente d’accordo sull’idea di provare a superare questo concetto del capitale umano perché anche a me non appassiona più di tanto. Dobbiamo riuscire a trovare qualcosa che possa sostituirlo, magari coniamo uno di quegli slogan che possono reggere nel tempo, per molti anni. Ci proveremo, perché noi dell’Eurispes siamo bravini in questo, riusciamo a fare buone cose, insomma. Sono d’accordo sui concetti di esperienza, di preparazione, sul fatto che non è tanto importante sapere quanto piuttosto saper fare, e questo viene tenuto in scarsa considerazione in un Paese che ha il certificato di laurea, il titolo di studio in testa. Le nostre mamme, appena nasciamo, pensano a come fare di noi un avvocato, un medico, un ingegnere, mentre se avessero optato per un maître d’hotel o per un sommelier – che guadagna tre volte di più di un professore universitario – avrebbero fatto il bene dei loro figli. L’esperienza e la preparazione non vengono tenute in grande considerazione e in questo, però, abbiamo un po’ di responsabilità anche noi, specialmente il sistema dell’informazione. Anche noi abbiamo sostenuto, nel corso degli anni, l’idea che uno vale uno, che siamo tutti uguali: si può fare il Presidente dell’Eurispes, il Vicedirettore del Corriere della Sera, il Presidente della Crui indipendentemente da tutto. Un’altra delle pecche che si potrebbero attribuire al sistema dell’informazione è quella di essersi piegato troppo facilmente all’idea della semplificazione, non siamo riusciti a far passare il messaggio che questa è una società complessa e pretende spiegazioni complicate e complesse. Invece, il sistema dell’informazione ci ha abituati, in questi ultimi decenni, alla semplificazione, allo sport, allo slogan; a tentare di spiegare la teoria della relatività in 140 caratteri – cosa che mi pare evidentemente abbastanza difficile. Bisognerebbe riscoprire anche una cultura della complessità, rifiutando la semplificazione. In questo è vero che, sia l’università sia il mondo dell’informazione sia anche quello della ricerca dovranno assumersi una certa responsabilità. Ritornando al discorso del saper fare, in Istituto, come potete immaginare, arrivano centinaia di curricula di giovani sociologi, economisti, giuristi, insomma di tutto e di più. Io prendo in considerazione principalmente i curricula che iniziano con “ho fatto la baby-sitter”, “ho fatto il cameriere”, quei curricula che “confessano” di aver svolto, nel corso del percorso di studi, anche attività di lavoro manuale. Di solito quelli che hanno la capacità di “confessare” li convoco, ci parlo e devo dire che, in questo senso, riesco ad essere un ottimo talent scout perché quelli che poi scelgo alla fine danno sempre buonissimi risultati. Invece, non sono molto d’accordo con l’idea del Professor Resta, secondo cui, bene o male, i ragazzi di oggi sono gli stessi di quelli di un tempo. Lei è giovane, mentre io sono il più vecchio della partita. Se penso ai ragazzi della mia generazione, penso a quelli che studiavano il latino sin dalla prima media, che, come dire, venivano sottoposti alla declinazione di rosa rosae, che venivano invitati ad approfondire la cultura classica. Io credo che un ragazzo di terza media degli anni Sessanta equivalga, in termini di conoscenza, ad uno studente universitario di oggi. C’era un altro approccio, un’altra curiosità, il sistema educativo probabilmente era diverso, ma noi siamo riusciti, nel corso di questi decenni, a demolire tutto quello che era possibile demolire. La stessa figura dell’insegnante è cambiata: il maestro era un precettore che ti portava dalla prima alla quinta, era un educatore, di fatto, conosceva i propri allievi, ne conosceva i punti di forza e di fragilità, le debolezze. Insomma, aiutava in qualche maniera a crescere. Adesso, i ragazzi vanno a scuola e hanno tanti maestri: quello effettivo, il maestro supplente, il maestro di sostegno, e così via. Quindi, sull’idea che una generazione vale l’altra non sono molto d’accordo. Noi dovremmo fare invece un grande sforzo per restituire – all’informazione da una parte, alla scuola dall’altra – il giusto peso e, se volete, anche la giusta vocazione. Sono molto d’accordo sul fatto che tutte queste università in Italia non hanno un grande senso. Condivido pienamente ciò che diceva il Rettore e cioè che, sì, possono esserci sul territorio delle università ma devono essere delle ottime università, che siano strettamente collegate alle vocazioni del territorio e che diventino poi internazionali. Altra cosa, e con questo vorrei concludere: io dico, da sempre – ormai da qualche ventennio – che il grande problema di questo Paese, la grande questione non risolta, è legata alla sua difficoltà di trasformare la “potenza in energia”. Questo è un Paese che ha potenzialità enormi, capacità enormi, intelligenze da vendere, ma non riesce a trasformare questo immenso potenziale in energia e se non si riesce a farlo, è come vivere a cento metri da una centrale elettrica ma continuare ad illuminare la casa con le candele. Lo sforzo che, secondo me, deve fare questo Paese è proprio questo: mettere a frutto le proprie capacità, le proprie potenzialità, riuscire a valorizzarle e a trasformarle, appunto, in energia. Ci sono stati momenti nei quali il Paese è riuscito in questo intento – penso all’immediato dopoguerra, alla trasformazione dell’Italia da paese povero e arretrato in una moderna democrazia industriale, fino ad essere inseriti tra le prime dieci economie del mondo. Bisognerebbe riuscire a trovare la forza – io la chiamo “forza ricostituente” –, cercare di imitare quantomeno quello che hanno fatto i nostri padri. C’è un pensiero che mi tortura: se pensiamo a quanto tempo hanno impiegato a costruire l’Autostrada del Sole, da Milano a Napoli, e al fatto che noi, oggi, per riuscire a costruire un chilometro di strada impieghiamo quindici anni (se bastano), abbiamo l’idea di un Paese che si è fermato. Questo è un Paese bloccato da una burocrazia asfissiante, da troppe leggi, da troppi ritardi. L’Italia deve liberarsi dai lacci e dai lacciuoli, dei quali parlava Einaudi, e deve liberare le proprie potenzialità ed energie perché, secondo me, è un Paese che avrebbe ancora molto da dire e, anche, molto da fare. Il problema poi, alla fine, è il tappo della politica da una parte e della burocrazia dall’altra, però anche di un deficit generale di classe dirigente. Io credo che questo sia il nostro grande problema: in questo Paese è venuta meno la classe dirigente. Quando parlo di classe dirigente lo faccio in tutte le sue articolazioni: l’Università, la Ricerca, il mondo dell’Informazione, l’Economia, la Politica. Quest’ultima, finisce per essere usata spesso come capro espiatorio di una crisi complessiva della classe dirigente del Paese, che è diventata un po’ più egoista di quanto non lo sia stata in passato, un po’ più chiusa in sé stessa, un po’ più autoreferenziale. Sto facendo anche autocritica e spero che questo Laboratorio possa portare una goccia nel mare del cambiamento. Non ho dubbi a riguardo, la direzione verso la quale bisogna lavorare è proprio questa. In uno degli ultimi Rapporti Italia avevo segnalato questa separazione tra Sistema e Paese: un tempo si parlava di Sistema Paese che ora non esiste più. Ora, il Sistema da una parte ed il Paese dall’altra, sono separati in casa, convivono, più o meno amandosi, a seconda delle ore, più o meno insultandosi. Questa separazione mette in discussione la prospettiva stessa del tutto, quindi, noi dobbiamo cercare di recuperare questa frattura, dove ciascuna delle due parti finisce per attribuire all’altra le colpe del cattivo funzionamento del tutto.
Cosmi:
Sicuramente, partendo da quello che non manca, continueremo insieme a ricucire queste fratture che ci sono state ma che hanno la possibilità di essere curate, guardando lì dove forse non abbiamo guardato e puntando ad unire le individualità che sono presenti nella classe dirigente. In tutto questo, per riuscire a ricreare un Sistema Paese, forse servirà che tutti noi ci sentiamo parte di questa “via alternativa” che punta a lavorare in maniera sinergica per cambiare in meglio tutti quegli aspetti di cui abbiamo parlato durante questo incontro. Penso ad una fra tutte, che è l’analisi fatta da voi sulla questione del sapere, su quella che io chiamo la “coriandolizzazione dei saperi”. Forse, in questo caso, andranno date le possibilità di essere flessibili nel proprio percorso, in un Paese che invece ha reso flessibili i contratti, in alcuni casi, ma non i percorsi formativi. In questo Paese la flessibilità non è arrivata, abbiamo creato per regime una struttura che ha lasciato dei saperi troppo aut aut e, sicuramente, questa imposizione non fa bene a nessuno.