Atti del webinar “Italia: scenari lontani, interessi vicini”

Mercoledì 15 dicembre 2021, si è svolto il webinar organizzato dall’Osservatorio sui Temi Internazionali dell’Eurispes, focalizzato sul tema “Italia: scenari lontani, interessi vicini”. Sono intervenuti alla discussione il Presidente dell’Osservatorio, l’Ambasciatore Giampiero Massolo, che ha moderato l’incontro, il Ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, il Presidente Simest SpA, Pasquale Salzano, Marta Dassù, Saggista, componente dell’Aspen Institute, Nicoletta Pirozzi, Responsabile Affari Istituzionali IAI (Istituto Affari Internazionali), Giovanni Tartaglia Polcini, Magistrato, consigliere MAECI, componente del Comitato Scientifico dell’Eurispes. Gli atti del webinar sono consultabili online.

 

A seguire gli interventi dei relatori:

GIAMPIERO MASSOLO, Presidente Osservatorio Eurispes sui Temi Internazionali: Buonasera a tutti, sono Giampiero Massolo, Presidente dell’Osservatorio sui Temi Internazionali dell’Eurispes. Sono molto lieto di questo incontro con partecipanti di primissimo livello, a cominciare dal Ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, Marta Dassù, molto attiva nelle relazioni internazionale ed in questo momento responsabile dei programmi dell’Aspen Institute, Nicoletta Pirozzi, Responsabile Affari Istituzionali IAI (Istituto Affari Internazionali), Pasquale Salzano, Presidente di Simest SpA, e Giovanni Tartaglia Polcini, Magistrato, consulente del Ministero degli Esteri e membro dell’Osservatorio dell’Eurispes. Quello che vogliamo approfondire oggi è un tema dedicato al pubblico italiano, il quale non sempre ha la percezione di quanto sia rilevante per l’interesse nazionale – e anche per i nostri interessi individuali di cittadini – conoscere quello che accade in luoghi a volte anche molto lontani dai confini nazionali. Questa è la ragione per cui l’Osservatorio – il cui scopo è proprio quello di avvicinare a questo genere di tematiche l’opinione pubblica interessata, ma anche quello di sottolineare sempre qual è l’interesse nazionale italiano nelle singole vicende di politica estera nelle relazioni nazionali – ha deciso di dedicare questo webinar a tale tematica. Nel ringraziare i nostri partecipanti, chiederei a Marta Dassù di prendere la parola.

MARTA DASSÙ, Saggista, componente dell’Aspen Institute: Grazie per questo invito e grazie all’Eurispes che ci invita ad approfondire questo tema così importante. Per prima cosa vorrei dire che non sono così convinta che i cittadini non sappiano che eventi anche lontani possano avere conseguenze sul loro destino. Credo che, in linea generale, dopo la famosa teoria dell’“effetto farfalla” (un evento lontano e minore può avere, a catena, conseguenze globali) e, soprattutto, dopo vari decenni di globalizzazione, con i suoi effetti sulla classe media occidentale, le persone siano consapevoli che è diventato molto difficile circoscrivere fatti apparentemente lontani (basti pensare alle conseguenze globali dell’esistenza dei wet markets a Wuhan in epoca di pandemia). Una prima riflessione è che non c’è più niente di veramente lontano, perché la fine della distanza è parte del mondo in cui viviamo oggi. Il problema mi pare che riguardi, piuttosto, la gestione delle conseguenze, e distinguerei fra un impatto di sicurezza e un impatto economico, anche se la realtà è che queste due circostanze sono, molto spesso, intrecciate, e la distinzione fra economia e geopolitica è diventata sempre più difficile. Sulla sicurezza, e sulla definizione di quelli che sono i propri interessi, esiste ancora in Europa – direi più nell’opinione pubblica che nella classe politica – una doppia inclinazione, una tentazione che definirei “terzaforzista” o neutralista, una tendenza alla delega. Porto come esempio un sondaggio recente dello European Council on Foreign Relations che pubblicheremo sul prossimo numero di Aspenia: i risultati indicano che la maggior parte degli europei dice che, in un potenziale conflitto fra Stati Uniti e Cina, gli europei dovrebbero restare assolutamente neutrali. Emerge chiaramente la convinzione che sia possibile ancora concepire l’Europa come una sorta di grande Svizzera, in particolare di fronte a quello che è uno dei problemi centrali della geopolitica di oggi, cioè la competizione estrema – per usare la definizione di Biden – fra Stati Uniti e Cina. Ma, nello stesso sondaggio, gli europei affermano anche che, in caso di attacco all’Europa da parte di una potenza straniera, sono gli Stati Uniti a dover intervenire e, quindi, si ritiene che, a prescindere da quello che potremmo decidere e fare su un fronte cruciale per gli Stati Uniti (come sarebbe il conflitto con la Cina), avremmo comunque la protezione garantita di questi ultimi attraverso la NATO. Questo è uno dei problemi di fondo, perché di fronte alle tensioni geopolitiche di oggi, questa doppia tendenza terzaforzista e basata sulla delega, come detto, non è più sostenibile. Per parlare di eventi apparentemente lontani che, invece, hanno un impatto diretto sui nostri interessi nazionali, credo che potrebbe essere una buona scelta quella di discutere più a fondo quali siano le responsabilità dell’Europa, dell’Unione europea in quanto tale e dei principali paesi europei nella regione Indo-Pacifica. Questo è un territorio che, apparentemente, viene percepito come un teatro abbastanza lontano, ma che in realtà sta diventando il fulcro di equilibri geopolitici ed economici mondiali che ci interessano molto da vicino. Abbiamo interessi in gioco nella libertà di navigazione della regione, abbiamo interessi fondamentali di fronte a tensioni geopolitiche da Hong Kong a Taiwan e abbiamo di fronte l’area che creerà molto dello sviluppo demografico dei prossimi decenni. Rispetto alla nostra collocazione nella regione Indo-Pacifica, la discussione mi sembra ancora in una fase iniziale e credo che ci siano due possibilità: la prima è che gli europei, e anche l’Italia, ritengano che avere una presenza diretta in questa regione sia assolutamente cruciale e, in parte, è già così (l’Unione europea ha varato quest’anno una strategia per l’Indo-Pacifico che rimane abbastanza vaga ma che, tutto sommato, esiste); in parte, però, ci sono ulteriori passi da compiere (ad esempio, una parte dei paesi europei – come Francia, Germania, Gran Bretagna ‒ hanno deciso di mostrare la bandiera in campo marittimo, hanno, cioè, deciso di avere una presenza diretta e riconoscibile in quest’area). L’Italia, per il momento, ha riconosciuto l’importanza di questo teatro strategico, ma non ha ancora deciso di avere una presenza militare propria (abbiamo partecipato a missioni militari, ma non abbiamo una presenza militare diretta). Dei passi in avanti politici e diplomatici sono, tuttavia, già stati compiuti, come l’iniziativa trilaterale con India e Giappone e così via. E, in questo contesto, si colloca la seconda possibilità, ossia quella di andare verso ciò che potrebbe essere definita come una sorta di divisione geografica del lavoro, nel senso che nel momento in cui gli Stati Uniti vedono in questa regione il pivot dei nuovi equilibri militari e del loro impegno a contenimento della Cina, l’Europa deve assumere maggiori responsabilità dirette sia nella difesa europea sia nel vicino estero. Quindi, un’ipotesi di lavoro rispondente all’interesse nazionale dell’Italia è, in fondo, quella di concentrarsi “in and around Europe”, nel Mediterraneo, nel Sahel, in Libia, nei Balcani, lasciando perdere quelli che apparentemente sono lidi troppo lontani, ma in base ad una divisione dei compiti abbastanza espliciti tra Europa e Stati Uniti. In ogni caso, è un fronte decisivo, è il caso tipico di un teatro in apparenza lontano, ma invece così rilevante per i nostri interessi diretti. Lo è anche per un’altra ragione sulla quale invito tutti alla discussione: la possibilità teorica che i due grossi problemi potenziali che esistono nella sicurezza internazionale (fronte Est dell’Europa per quel che riguarda l’Ucraina e, per quel che riguarda gli equilibri del Pacifico, una crisi eventuale su Taiwan) possano, in qualche modo, presentarsi simultaneamente; che ci sia, cioè, un interesse congiunto di Russia e Cina a muovere i due fronti in modo coordinato. Questo è lo scenario da incubo per gli Stati Uniti, in particolare, ma anche per noi, di una guerra su due fronti che sarebbe difficile da sostenere. In campo economico parlare di distanza è, obiettivamente, più difficile: l’integrazione e l’interdipendenza sono tali che parlare di distanza è oramai infondato. Direi però che, mentre nel caso della geopolitica, abbiamo effettivamente il problema di aumentare il nostro grado di partecipazione a scenari che sembrano lontani, nel caso dell’economia c’è il tentativo di ridurre i rischi legati all’interdipendenza. In modo diverso, tutti i grandi attori del sistema internazionale (la Cina, gli Stati Uniti, e anche l’Europa) cercano di attuare un’operazione di “derisking” dell’interdipendenza, in qualche modo di trovare una distanza che non c’è più. E, questo, per una serie di motivi, fra cui il principale è la fragilità delle catene globali del valore (lo abbiamo scoperto fino in fondo con la crisi pandemica). È sempre importante tenere presente, anche ragionando sui problemi economici, che la compenetrazione fra geopolitica ed economia è ormai strettissima. Faccio un esempio: parliamo molto del New Green Deal come di una delle due grandi leve della ripresa economica europea, ma dobbiamo essere consapevoli che il Green Deal europeo richiede una politica estera e di sicurezza perché la possibilità di adottare su larga scala le tecnologie rinnovabili è legata ad un controllo di terre e minerali rari, ecc. che sono fondamentali per la trasformazione green. Infine, un discorso a parte riguarderebbe i beni pubblici globali, come l’ambiente, la salute, i movimenti di popolazione. Se guardiamo, ad esempio, al sondaggio di opinione pubblica che lo IAI pubblica regolarmente riguardo le preferenze degli italiani sulla loro propensione in politica estera, le migrazioni vengono sicuramente al primo posto e, al secondo posto, il rischio ambientale; quindi, c’è una valutazione del rischio che allude a grandi accordi internazionali sulla gestione di beni pubblici. Il punto è che mancano fiducia e convinzione sul fatto che questi accordi globali possano davvero funzionare o che, guardando alla migrazione sul piano europeo, ci possa essere una vera solidarietà tra paesi che hanno una collocazione diversa. Se questa sfiducia va oltre un certo limite, è chiaro che il cittadino, alla fine, ritiene di poter agire solo sull’ultimo miglio, e cioè ritiene di non poter pensare ad altro che ad una “toppa finale”, il famoso muro verso i fenomeni migratori è abbastanza emblematico di questo tipo di realtà. Ma sappiamo benissimo che tutto questo è un’illusione, perché l’idea che in un’epoca come quella attuale possa esistere una soluzione pienamente nazionale di tipo sovranista, in realtà non funziona. L’unica possibilità è quella di recuperare uno spazio di azione come parte di un’Unione europea che funzioni davvero, ma questo implica che i singoli Stati membri assumano, fino in fondo, i loro impegni e le loro responsabilità avendo chiare le proprie priorità. Credo che il recupero di sovranità, o di capacità di difendere i propri interessi primari, dipenda da un buon funzionamento dell’Unione europea, che questo obblighi i singoli componenti di questo sistema complesso a fare, fino in fondo, la loro parte e che necessiti anche di accordi specifici fra i vari paesi dell’Unione. Il grado di adesione dei cittadini (secondo il sondaggio di novembre realizzato dello IAI) è di nuovo in crescita, basta che sia chiaro che l’Unione europea non è un qualcosa di altro da noi, che ci soccorre in assenza di una nostra capacità specifica di azione dei nostri interessi nazionali. Se l’Unione può esistere è perché i paesi, e in particolare i paesi più grandi, hanno ben chiara la posta in gioco e gli strumenti per difenderla.

GIAMPIERO MASSOLO, Presidente Osservatorio Eurispes sui Temi Internazionali: Grazie a Marta Dassù. Quella dipinta è, sostanzialmente, un’opinione pubblica che magari sarà meno inconsapevole di quanto si possa pensare su quello che minaccia l’interesse nazionale o che rappresenta un’opportunità per l’interesse nazionale da terre lontane. Però è anche un’opinione pubblica che reagisce in maniera direi quasi introspettiva, difensiva e anche un po’ scettica, sia su quello che può fare l’Europa a questo riguardo, sia su quello che possiamo fare noi come Paese preso singolarmente. Ma, chiedo a Pasquale Salzano, le aziende come si collocano in questa prospettiva? Perché quello delle terre lontane (nonché quello europeo) dovrebbe essere l’habitat naturale per le aziende, quindi, più che scetticismo di difesa, dovrebbero esserci, in qualche modo, una fattiva partecipazione e un atteggiamento che guarda avanti.

PASQUALE SALZANO, Presidente Simest S.p.A.: Grazie Ambasciatore. Ho ascoltato molto attentamente quello che ha detto Marta Dassù. Effettivamente i rischi legati all’interdipendenza cui si faceva riferimento sono ormai l’elemento su cui le grandi aziende, ma anche le piccole e medie, si stanno confrontando. Per quanto riguarda le aziende, la globalizzazione sembrava aver portato all’applicazione della teoria del “just in time”, cioè avere nei magazzini le merci solamente per il tempo strettamente necessario, in modo da utilizzarle immediatamente. Ormai si sta cambiando paradigma, si sta arrivando al “just in case”, ossia le aziende hanno e accumulano merci perché potrebbero averne bisogno in una situazione di catene internazionali del valore che sono sempre più allungate e sempre più difficili da gestire. È chiaro che, in questo contesto, dobbiamo chiederci se l’interesse dell’Italia sia quello di creare delle aree più piccole, geopoliticamente protette (l’area europea allargata, l’area del Mediterraneo allargato). Questa potrebbe essere la risposta più semplice, perché è chiaro che se delimitiamo le aree in una definizione geografica molto più familiare, il rischio, inteso in senso ampio, potrebbe essere ridotto. Ma, purtroppo, come Italia – il nostro Paese arriverà, entro fine anno, a circa 500 miliardi di export che trascinano enormemente la nostra economia – non possiamo permetterci, per le nostre condizioni economiche, per quanto siamo protesi verso l’estero, di ridurre il nostro range di azione. Ecco, quindi, che si giustifica il titolo stesso del webinar di oggi, “Scenari lontani, interessi vicini”, perché per l’Italia, per le nostre aziende, soprattutto quelle piccole e medie, questa è una realtà quanto mai attuale. Anche la svolta green, di cui si parlava prima, è legatissima alla geopolitica. Andando, ormai, in quella direzione, l’approvvigionamento di tutti quei materiali che servono per questa svolta green faranno arricchire e consentiranno un passaggio economico dalle nostre aree ad aree diverse, la Cina, in modo particolare, anche perché molti paesi africani, controllati oggi nelle loro miniere dalla Cina, sono quelli da cui provengono i materiali. Ultimo elemento è la “finanza trasformativa”. È chiaro che il ruolo delle grandi realtà (CdP, le agenzie di export credit) è oramai strategico e anche geopolitico, perché indirizzare la finanza e gli investimenti verso alcuni settori piuttosto che altri è davvero trasformativo. È notizia di questi giorni che il più grande fondo di investimento mondiale, il fondo norvegese, ha letteralmente eliminato dai propri indici di investimento le aziende che non rientrano nei parametri ESG. Tutto ciò comporterà una trasformazione, se non voluta, per autodeterminazione delle aziende, la comporterà anche l’effetto degli indicatori della finanza internazionale che, quindi, potremmo chiamare appunto “finanza trasformativa”. Per rispondere alla domanda dell’Ambasciatore, le aziende italiane non possono non essere presenti su tutti i mercati, non possiamo consentirci una regionalizzazione della nostra economia, ma questo comporta, ovviamente, delle necessità trasformative, nonché un sostegno del sistema-Paese in quanto tale, compresa la parte militare che è indispensabile per difendere i nostri interessi economici all’estero.

GIAMPIERO MASSOLO, Presidente Osservatorio Eurispes sui Temi Internazionali: Grazie. Aziende, campo largo. Cittadini, tendenzialmente un po’ sulla difensiva e un po’ scettici. In mezzo a questo, i governi: alla fine, spetta a loro dover definire che cos’è interesse nazionale, non c’è una definizione univoca, bisogna sintetizzare vari elementi. Nicoletta Pirozzi, ma perché in Italia è così difficile definire che cos’è interesse nazionale?

NICOLETTA PIROZZI, Responsabile Affari Istituzionali IAI (Istituto Affari Internazionali): Grazie Ambasciatore e grazie all’Eurispes per l’invito. Vorrei partire da dove Marta Dassù ha lasciato e rispondere anche alla sua domanda. Credo che in Italia ci sia, oggettivamente, questa difficoltà a definire in maniera coerente l’interesse nazionale e, poi, a portare avanti questo interesse in ambito europeo e internazionale con l’intero sistema-Paese, anche se le evoluzioni politiche internazionali alle quali abbiamo assistito negli ultimi anni sembrano andare in una direzione diversa; in questo scenario stiamo cominciando a definire meglio questo interesse e a farlo, soprattutto, in maniera coerente con l’interesse europeo. Credo che avessimo già compreso – nell’affrontare minacce come il cambiamento climatico, il terrorismo internazionale, le migrazioni – che c’è una forte connessione fra la sicurezza esterna, anche in scenari molto lontani, e la sicurezza interna. Con la pandemia abbiamo imparato due lezioni fondamentali: in primo luogo che l’interconnessione, a livello globale, fa sì che non esistano minacce troppo lontane da avere ripercussioni sul benessere e sulla sicurezza dei nostri cittadini e, allo stesso tempo, che queste sfide richiedono una risposta che sia coordinata a livello internazionale, anche attraverso forme di integrazione regionale, come sono quelle che ci mette a disposizione l’Unione europea. Partiamo dal presupposto che in Europa esistono Stati piccoli e Stati che non sanno di esserlo, e che è necessario, per articolare l’interesse nazionale, che questo venga fatto su scala appropriata. Nel caso italiano, la scala appropriata è proprio quella europea. Per far sì che l’Unione europea diventi uno strumento e un attore di sicurezza credibile a livello globale, ci sono una serie di condizioni che vanno soddisfatte e, in questo, anche il ruolo che giocherà l’Italia sarà fondamentale. In primo luogo, dobbiamo dotarci delle capacità adeguate ad intervenire in scenari vicini, ma anche lontani. Sicuramente abbiamo fatto dei passi in avanti sul fronte della Difesa. È da poco uscito il Rapporto dell’Agenzia Europea della Difesa, che ci dice che sono aumentati gli investimenti degli Stati europei in questo settore a 198 miliardi di euro, quindi un incremento del 5% rispetto all’anno precedente nonostante il Covid-19. Ci sono stati anche una serie di progetti portati avanti dagli Stati europei soprattutto per quanto riguarda la Difesa, ad esempio: nell’ambito dello spazio o della costruzione di assetti strategici come i droni (o altro) che hanno visto la configurazione di un gruppo di testa di cui fa parte anche l’Italia insieme, ovviamente, a Francia e Germania. Sappiamo che la strada verso l’autonomia strategica è ancora molto lunga ma, al contempo, non dobbiamo dimenticare che l’Unione europea è uno dei pochi attori internazionali che può mobilitare tutta una serie di strumenti, al di là di quelli militari, che possono aiutarla ad essere protagonista a livello internazionale (da quelli diplomatici, a quelli civili). Questo aspetto di sicurezza integrata, credo che dovrà essere sempre più valorizzato per poter rispondere alle sfide ibride che abbiamo di fronte. Ma c’è un ulteriore tassello, che è quello della volontà politica, senza la quale le capacità servono a poco. Va presa coscienza, da parte degli Stati europei, in particolare dall’Italia, che è necessario cominciare ad andare avanti anche con gruppi di Stati membri, laddove il consenso a 27 non sia realizzabile. Creiamo, quindi, un gruppo ristretto con quegli Stati che possono e vogliono andare avanti, che vogliono portare avanti progetti ambiziosi nel settore della Difesa, ma anche intervenire con forze comuni in scenari di crisi e di conflitto, sperando che anche gli altri seguiranno. Serve, in questo, anche il sostegno dell’opinione pubblica, e riprendo quanto diceva Marta Dassù, nel senso che i dati dell’Eurobarometro dei cittadini europei sono sempre piuttosto positivi riguardo ad un ruolo più attivo dell’Unione europea nel settore della difesa e della sicurezza (questo è stato confermato anche dai risultati del sondaggio che abbiamo condotto allo IAI per quanto riguarda le opinioni dei cittadini italiani). Credo anche che nuove indicazioni ci arriveranno in questo senso dalla Conferenza sul futuro dell’Europa, attualmente in corso. È, infine, necessario ripensare il ruolo europeo a livello globale. Siamo reduci da questa esperienza drammatica e, allo stesso tempo, fallimentare in Afghanistan che, però, non credo debba farci abbandonare gli sforzi a sostegno delle democrazie e la costruzione delle Istituzioni funzionanti a livello regionale e globale. L’Europa non deve abdicare ai suoi valori di libertà e di democrazia, gli stessi che la distinguono come attore di sicurezza a livello internazionale. Credo sia necessario rafforzare e riaffermare una “strada europea” alla sicurezza e alla democrazia che abbiamo visto funzionare, anche se con risultati altalenanti, nel vicinato orientale, nel Sahel, e che può essere applicata anche ad altri contesti. Sia l’Italia (nel contesto europeo) sia l’Europa hanno tutte le potenzialità per giocare un ruolo di primo piano a livello globale, ma devono essere in grado di definire meglio i propri interessi sulla base della propria identità e cercare di portarli avanti con più forza sia con i partner sia con i rivali strategici a livello internazionale. Questa sarà la sfida del prossimo futuro.

GIAMPIERO MASSOLO, Presidente Osservatorio Eurispes sui Temi Internazionali: Grazie, prima di passare la parola al Ministro, c’è un ulteriore tema che mi sembra possa essere utilmente affrontato in questo contesto ed è il tema delle regole. Si dice spesso che l’Europa è una potenza normativa e si dice, altrettanto spesso, che l’Italia è la culla del Diritto, e allora, chi se non il Consigliere Tartaglia Polcini sulle regole: come entra in questo panorama così complesso e apparentemente anarchico il tema delle regole?
GIOVANNI TARTAGLIA POLCINI, Magistrato, consigliere MAECI, componente del Comitato Scientifico dell’Eurispes: Grazie Ambasciatore e buonasera a tutti. Grazie per l’opportunità di condividere quelle che sono le linee di un’azione che il Ministero degli Affari Esteri sta declinando negli ultimi anni e che noi definiamo di “diplomazia giuridica”. È un’azione che ha come termini di riferimento, da un punto di vista geopolitico, scenari anche lontani, ma che coltiva anche interessi vicini e di interesse nazionale. Mi riferisco, in particolare, ad un’opera di riposizionamento del Paese sullo scenario globale, in settori nei quali ha una leadership indiscussa, come per esempio nella lotta alle mafie e nella lotta alla corruzione (negli ultimi dieci anni) e nella lotta al riciclaggio di capitali illeciti. Questa attività di “diplomazia giuridica” ha due direttrici fondamentali: la prima è quella della armonizzazione normativa, far in maniera che vi siano degli standard minimi di riferimento e, con la nostra presidenza del G20, quest’anno abbiamo dato una forte spinta in questo senso; l’altra direttrice è quella relativa alla cosiddetta attività di assistenza tecnica, la Capacity building, quella che noi offriamo ai paesi, anche lontani. Chiaro che di fronte alla globalizzazione di una minaccia criminale, avere una risposta globale, concorde, è ormai una strategia, una necessità non più rinviabile, e l’Italia ha un ruolo di protagonista in questo settore; e non è che è un ruolo che si auto attribuisce, le viene riconosciuto anche da richieste di assistenza tecnica che pervengono ormai con cadenza quotidiana da scenari lontani. Che cosa può comportare, questo, dal punto di vista dell’interesse nazionale, indipendentemente da quello che può essere, diciamo, un riposizionamento strategico? Come renderlo utile alla consapevolezza del cittadino? Innanzitutto, noi invertiamo la narrativa sul nostro Paese. Perché da Paese considerato culla, non solo del Diritto, ma ahimè, anche delle Mafie più antiche e potenti del mondo, diveniamo, nello scenario globale, il Paese dell’antimafia più antica e più potente del mondo e lo stesso vale, negli ultimi dieci anni, per ciò che riguarda la prevenzione e il contrasto alla corruzione. Questa inversione di narrativa, inversione di storytelling, ha delle conseguenze potenziali e addirittura concrete e dirette su altri settori. Innanzitutto, ripulire l’immagine del Paese in questo senso può aiutare ad attrarre investimenti molto più che in passato. Sotto un altro aspetto, guardando per esempio al mondo imprenditoriale, accompagna i nostri attori economici all’estero con una maggiore credibilità rispetto al passato. Non solo si tratta di tutelare l’interesse nazionale e l’immagine del Paese, ma di contribuire anche alla Rule of Law globale perché alcune delle nostre regole sono effettivamente standard di riferimento non superate e non superabili, e allora, difendendo l’interesse nazionale, noi facciamo anche condivisione di valori. Un ultimo caveat sulla nostra attività di assistenza tecnica: la nostra metodologia, in materia di assistenza tecnica del settore della giustizia e sicurezza, viene considerata un modello di riferimento globale. Con il “decreto missioni”, coerentemente peraltro con l’obiettivo 16 dell’Agenda 2030 che prevede insieme Peace and Justice, e non è un caso che questo obiettivo trasversale declini queste due finalità insieme, abbiamo ottenuto un riconoscimento della qualità della nostra attività di assistenza tecnica da parte dell’Unione europea che finanzia tutte le nostre attività e che crea programmi disegnandoli attraverso la nostra metodologia distinta in quattro fasi. 1) Capacity building: siamo capaci di formare (posso confermarlo a distanza di cinque anni) migliaia tra magistrati e funzionari di polizia in scenari molto lontani di tutto il continente latino-americano e della regione caraibica e oggi, anche dell’Africa. 2) Institution building: rafforzamento istituzionale, oltre che formare i nostri interlocutori, rafforziamo le loro Istituzioni condividendo i nostri modelli. 3) Law building: costruiamo nuove leggi, abbiamo addirittura propiziato riforme costituzionali in più di un paese. L’inserimento, ad esempio, del delitto di associazione per delitto di tipo mafioso in alcuni Codici penali. 4) Consensus building: in questo contesto abbiamo una storia che all’inizio è stata drammatica, esattamente trenta anni fa, ma alla fine si è rivelata vincente. E non è un caso che l’anno prossimo cadrà il trentennale dei fatti di Capaci e di Via d’Amelio a Palermo che consentiranno ancora di più al nostro Paese di potersi posizionare adeguatamente come guida nell’antimafia e nell’anticorruzione sul piano globale.
GIAMPIERO MASSOLO, Presidente Osservatorio Eurispes sui Temi Internazionali: Grazie molte, soprattutto quest’ultimo aspetto che ha toccato. Credo che sia argomento caro a tutti noi che ne siamo perfettamente consapevoli. Passerei la parola al Ministro della Difesa.
LORENZO GUERINI, Ministro della Difesa: Grazie all’Ambasciatore Massolo, grazie ai relatori che sono intervenuti prima di me; credo che abbiano dato importanti spunti di riflessione in cui collocare anche le valutazioni più prettamente riferibili alle competenze del Ministero della Difesa, alle strategie del Ministero della Difesa così come si è delineato in questi ultimi anni dentro un contesto del quale dobbiamo sempre avere consapevolezza e contezza, certamente immaginando quelle che sono le nostre dinamiche di lavoro e di intervento. Io condivido l’impostazione che è stata data da Marta Dassù nel suo intervento, introducendo i nostri lavori; condivido la lettura della fine della distanza come elemento caratterizzante e anche le scelte che noi siamo chiamati a fare nel campo della difesa, della tutela e della sicurezza. Condivido anche quel giudizio sospeso tra le posizioni presenti nell’opinione pubblica europea rispetto agli impatti di sicurezza delle dinamiche globali nelle quali noi siamo oggi immersi e rispetto alle risposte della nostra opinione pubblica. Che poi l’opinione pubblica in realtà non pone mai una cesura netta con i parlamenti, con i governi, perché l’influenza li condiziona rispetto alle responsabilità che gli impatti di sicurezza richiamano. Le ricerche che sono state appunto richiamate, confermano già ricerche del passato, elementi di fondo del passato. Mi ricordo che due/tre anni fa fu pubblicata una ricerca sulla NATO e, nell’opinione pubblica europea, con particolare riferimento poi a una segmentazione sull’opinione pubblica italiana, emerse una situazione molto precisa per cui: grande fiducia nella NATO e consapevolezza dell’importanza della NATO per la nostra sicurezza; dopo di che, nel momento in cui questa consapevolezza si doveva, e si deve, trasformare in azioni concrete per mantenerla, per preservarla e perseguirla, oppure in azioni ancora più importanti nel caso di minaccia concreta proveniente dall’esterno, l’opinione pubblica riteneva che l’Italia dovesse essere perfettamente ancorata alla NATO ma era anche convinta che la responsabilità dell’azione, degli interventi fosse tutta in capo agli Stati Uniti. Quindi, diciamo che questo elemento è sì presente nella nostra opinione pubblica, ma sta anche a noi la capacità di assumerci la responsabilità, e quando dico “noi” intendo la classe politica, la classe dirigente in senso più largo, le istituzioni, i governi, i parlamenti. Sta a noi, dicevo, far comprendere qual è il nostro contributo di responsabilità rispetto alla capacità di gestire gli impatti sulla sicurezza del contesto nel quale operiamo. Certamente, da questo punto di vista, è necessaria la crescita della consapevolezza, anche qui, forse, non perfettamente compresa dall’opinione pubblica, del salto di qualità della difesa europea. In conclusione, l’epilogo drammatico dell’Afghanistan è stato sicuramente un acceleratore da questo punto di vista sotto il profilo della percezione dell’importanza di questo obiettivo e, dopo di che, declinare questa percezione, appunto, nell’opinione pubblica e nel rapporto con l’opinione pubblica in ciò che esso significa è un compito che è richiesto a noi: ai governi, ai parlamenti. Diventa importante il dibattito sulla difesa europea, così come è stato evocato dalla Dott.ssa Pirozzi, laddove richiamava l’attenzione su cosa significhi sicurezza europea. Personalmente, continuo a ribadirlo in ogni intervista, in ogni comunicazione in Commissione, in ogni possibilità di incontro politico: dobbiamo essere consapevoli di che cosa significhi far crescere la difesa europea e, come dire, avere un altro livello di ambizione per la difesa europea. La discussione sullo Strategic Compass da questo punto di vista è sicuramente la prospettiva più corretta nella quale dobbiamo collocare la nostra valutazione. Ho visto grande passione sul tema della Forza di primo impiego, i cinquemila uomini, che poi in realtà è un incremento dei Battlegroups che sono già presenti nell’organizzazione; però “difesa europea” significa qualcosa di molto più complesso ed impegnativo, significa avere un’analisi condivisa della minaccia, significa avere una base industriale e tecnologica comune, significa avere capacità adeguate, significa avere un’agenda e una volontà di impiegarle, significa un lavoro, un’ambizione che è molto politica e che, non a caso, sta impegnando l’Europa nella riflessione in corso. Certamente ci sono elementi importanti: la crescita degli investimenti nel campo della Difesa. Mentre vi sentivo parlare, mi son sentito chiamato in causa: sulla crescita degli investimenti. Nel campo della difesa italiana ho cercato di caratterizzare la mia azione con una consapevolezza condivisa dalle Forze Armate, condivisa anche dal Parlamento, fortunatamente, sull’esigenza di recuperare il “gap capacitivo” di cui l’Italia soffriva, per le questioni legate a “ipo finanziamento” negli anni passati, per la non continuità di finanziamento, per l’esigenza di dare proiezioni finanziarie al nostro sistema industriale, eccetera eccetera. Sono destinatario, diciamo così, di una ciclica campagna di legittima critica, che da questo punto di vista è anche molto presente sui giornali, nei social; mi sono sentito chiamato in causa anche da Massolo, e poi ripreso anche dalla Dott.ssa Pirozzi nel suo intervento, appunto sulla difficoltà dell’Italia non tanto di aver consapevolezza ma di aver il coraggio di declinare, nell’opinione pubblica, il tema dell’interesse nazionale. Anche qui, proprio negli ultimi giorni sono stato destinatario di una legittima, continuo a dire, critica, rispetto al fatto che, appunto, nell’individuazione dell’interesse nazionale da tutelare, alla base delle scelte di proiezione dello strumento militare fuori dei nostri confini ho definito una serie di punti, voglio dire, una serie di obiettivi ed interessi sono presenti nella Legge, nelle schede missione – e il Dott. Tartaglia Polcini, da questo punto di vista, può essere più preciso di me e può insegnarmi – nelle schede missioni dicevo, c’è l’impiego ma ci sono anche gli obiettivi delle missioni stesse e gli interessi che a quelle missioni sono legati. Se qualcuno di voi ha avuto modo di essere al corrente nei giorni scorsi, uno dei temi sollevato in maniera molto critica rispetto alle azioni e alle missioni che abbiamo deciso di realizzare e anche con le motivazioni nella definizione dell’interesse di quelle missioni, dicevo tra i temi citati c’era anche la tutela degli interessi energetici del Paese: questo è diventato un elemento di critica, un elemento appunto di legittima presa di distanza dalle posizioni da noi assunte. Perché cito questo episodio? Perché credo che anche qui ci debba essere il compito da parte nostra di intraprendere, con la responsabilità e il coraggio giusti, una riflessione sulla definizione degli interessi che intendiamo tutelare, preservare e garantire nel momento in cui immaginiamo la proiezione del nostro strumento militare. Se guardo retrospettivamente al nostro passato, è molto più semplice declinare la nostra proiezione dello strumento militare su una prospettiva multilaterale: le operazioni di peace keeping sono certamente rilevanti e importanti e molto più complicate quando dobbiamo associare a questa proiezione, appunto, la tutela degli interessi nazionali di sicurezza intesa in senso largo e lato. Questo è uno dei limiti con cui ci siamo confrontati in questi anni, ma io credo che debba diventare uno degli elementi di lavoro a cui dobbiamo guardare con grande impegno, con grande coraggio, con grande determinazione. In virtù di questo, abbiamo immaginato – e chiudo con questi ultimi due punti – sempre di più di definire la proiezione del nostro strumento militare (nell’ambito delle operazioni, delle missioni autorizzate dal Parlamento) entro quello che riteniamo sia il quadrante strategico del nostro interesse nazionale: l’area del Mediterraneo allargato che ha visto, sempre di più in questi anni, concentrare la nostra azione e il nostro impegno. In quell’area risiedono interessi di sicurezza, interessi legati alla libertà e alla sicurezza del commercio e della navigazione; risiedono interessi energetici da tutelare; risiedono interessi di presenza rispetto ad assertività o alla presenza di altri attori. E io credo che la costruzione della proiezione del nostro strumento militare, della nostra presenza militare all’estero, se uno ricerca una strategia italiana, la trova appunto dentro questo quadrante e dentro queste scelte. Per quanto riguarda la presenza nel Mediterraneo, stiamo per mettere a punto una strategia della difesa per la regione, chiaramente non sganciata da una visione interministeriale, innanzitutto con il Ministero degli Esteri, per mettere a sistema la nostra presenza e per accrescerla dove necessaria, considerando la centralità che oggi il Mediterraneo ha, l’importanza che il Mediterraneo rappresenta; con la presenza di attori interni ed esterni; con l’esigenza di costruire intorno a questa presenza il quadro delle nostre relazioni con i paesi che sul Mediterraneo si affacciano. Poi c’è la questione dell’Africa, con particolare riferimento ai nostri interessi di sicurezza, che poi coincidono con gli interessi di sicurezza europea. Penso al triangolo che va dalla Libia, come vertice alto, al Corno d’Africa come vertice ad Est, e al Golfo di Guinea come vertice ad Ovest; penso all’esigenza e al contributo, da parte dell’Italia, per quanto riguarda gli interessi nella sicurezza della navigazione e della sicurezza commerciale. L’impegno nella presenza marittima coordinata, europea, nel Golfo di Guinea, l’impegno nel Golfo di Aden e di proiezione sull’Oceano Indiano con l’operazione Atalanta, un nuovo impegno nello Stretto di Hormuz e poi penso ai quadranti, alle regioni, alle aree di crisi in cui sta crescendo il nostro impegno: l’Iraq, il Libano, i Balcani Occidentali. Lì, con in mezzo il Mediterraneo, c’è il centro della nostra azione e della proiezione del nostro strumento militare. Secondo punto, la partecipazione ad una visione, ad un impegno e a nuove prospettive, o meglio, diciamo, alle ambizioni dell’Unione europea nel campo della difesa, senza trascurare la revisione del concetto strategico dell’alleanza atlantica che è in corso di definizione. Allora, qui si pone il tema, secondo me, non della dicotomia e neanche dell’alternativa, ma di quei due punti posti da Marta Dassù, che sono legati al nostro Paese ma soprattutto all’Europa e al ruolo del nostro Paese nell’Europa, cioè, dentro al nuovo quadrante che sta diventando decisivo all’interno delle nuove rivalità sistemiche e all’interno della nuova condizione geopolitica globale di riferimento, cioè l’Indo-Pacifico. Se da un lato c’è la consapevolezza o la volontà o l’individuazione di una presenza indispensabile nell’Indo-Pacifico, e quindi di una strategia dell’Unione europea nell’Indo-Pacifico meglio definita rispetto ad alcune linee di azione che oggi sono state individuate – in questo senso, sono state richiamate alcune operazioni di show the flag di alcuni paesi –, che cosa intende fare l’Italia da questo punto di vista? Oppure, il secondo corno di questa potenziale dicotomia (che secondo me, ribadisco, non è una dicotomia): l’assunzione del tema, la butto lì – e mi perdoneranno i diplomatici per questo linguaggio non particolarmente forbito – della suddivisione delle competenze e dei compiti nei quadranti geografici che possono vedere un maggior impegno della difesa europea all’interno del quadrante, diciamo così, “del proprio vicinato” e dell’arco di instabilità che nel nostro vicinato è presente, lasciando a una potenza globale come gli Stati Uniti la responsabilità dell’attenzione sull’Indo-Pacifico. Io credo che dobbiamo fare entrambe le cose. Penso che l’Europa oggi sia chiamata, e di questo sono convinto, a confrontarsi sul campo della difesa e della sicurezza, ad avere un ruolo più coraggioso, più profilato, più sistemico, dentro il proprio vicinato. L’Africa è il luogo in cui l’Unione europea misura, a mio parere, il livello della propria ambizione nel campo della difesa e della sicurezza, contando (non ricordo da chi è stato detto) sugli strumenti propri dell’Unione stessa, che sono strumenti che associano la dimensione militare, la dimensione diplomatica, la dimensione economica, la dimensione della cooperazione, e altro ancora. Dall’altro lato, penso che l’Italia, dentro la strategia per l’Indo-Pacifico e in stretta relazione con la postura americana ed anche con la riflessione in corso in ambito NATO, che non possiamo nasconderci c’è, l’Italia, ripeto, possa immaginare presenze dentro formati unilaterali anche nell’Indo-Pacifico sapendo che questo è un contributo di presenza, di solidarietà e di partecipazione ad uno sforzo più ampio, più importante di organizzazione e di realtà di soggetti di più grande importanza, più forte rispetto a noi, e concentrare poi la nostra attenzione appunto al contributo sul quadrante invece più vicino a noi. Io penso che se noi consideriamo, come dire, da questo punto di vista, non solamente la nostra partecipazione, o la costruzione delle nostre missioni, delle nostre operazioni, della proiezione del nostro strumento militare, ma anche la nostra posizione all’interno del dibattito europeo sulla difesa europea e dentro la discussione che si sta facendo sulla revisione strategica della NATO, penso si possa vedere come l’Italia difende e promuove i propri interessi nazionali anche in scenari lontani e apparentemente laterali rispetto al nostro territorio, sia nella dimensione dell’impegno diretto o anche di carattere bilaterale sia nella dimensione della partecipazione alle attività e alle azioni dell’organizzazione di cui facciamo parte.

GIAMPIERO MASSOLO, Presidente Osservatorio Eurispes sui Temi Internazionali: Grazie al Ministro, devo dire che mi accingevo ad ascoltare questo dibattito con una scommessa con me stesso, nel senso che sono stato tradizionalmente sempre un po’ scettico sull’idea di questo adattamento progressivo della consapevolezza nazionale, a quanto conti per l’interesse nazionale quello che succede fuori dai confini patri, invece ho maturato via via il convincimento che la consapevolezza di questo genere di fenomeni cresce, che le aziende fungono spesso da promotori, da magnificatori di questa consapevolezza e, peraltro, anche le opinioni pubbliche. E in questo il Covid ha acuito la sensibilità dell’opinione pubblica circa il fatto che le risorse che un tempo erano molto dedicate a finalità localistiche e assai poco destinate a finalità che avessero a che fare con l’estero a vario titolo (di sicurezza, militare, diplomatico e quant’altro) via via tornano ad affluire e soprattutto cresce quella capacità del Governo di fare sintesi, senza la quale, evidentemente, poi non si riesce a predisporre alcuna politica coerente. Sono molto contento che negli interventi che abbiamo ascoltato questo genere di impostazione positiva, costruttiva, si stia facendo ulteriormente strada. Soprattutto l’idea che abbiamo consapevolezza che non si può, come Europa, continuare a delegare acriticamente e senza limiti agli Stati Uniti quella che è una sicurezza che dobbiamo prendere anche nelle nostre mani; e, come Italia, che non si può illimitatamente delegare all’Europa quello che invece è ineludibile prima di tutto risolvere a livello nazionale. Quindi, il fatto che questo processo si sia rimesso in moto, diciamo così, deve essere motivo di conforto. Sono molto grato ai nostri partecipanti, al Ministro, a Marta, a Nicoletta, a Pasquale, a Giovanni Tartaglia Polcini, anche a nome del Presidente dell’Eurispes, Gian Maria Fara. Grazie per averci seguito e grazie a voi tutti per essere intervenuti.

 

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