Atti del webinar “Capitale Umano: luoghi e valori che formano le classi dirigenti” – 27 maggio 2021

Ricceri: Ringrazio i nostri illustri ospiti a nome dell’Eurispes e del Presidente Fara. Il tema che avete scelto, relativo ai luoghi e ai valori che formano le classi dirigenti, rappresenta una vera sfida. Innanzitutto perché oggi dobbiamo operare in virtù di quella nuova realtà che è la sostenibilità e dobbiamo farlo costruendo un modello completamente diverso, che passi dalla quantità alla qualità. Nella società attuale ci si deve necessariamente misurare con i cosiddetti “megatrend”, con la globalizzazione, la rivoluzione digitale, il clima, i cambiamenti demografici, e così via. La riflessione introduttiva che mi permetto di fare è la seguente: stiamo lavorando sulla nostra società come su una società della comunicazione, dell’informazione e della conoscenza. Il Piano di Ricostruzione del Governo è tutto legato a costruire dei collegamenti fra il mondo dell’Università e quello dell’industria e la missione principale è quella che dalla ricerca mira all’impresa. La domanda che faccio come stimolo alla discussione è quindi questa: tale visione ci aiuta davvero ad entrare in uno scenario nuovo? Stiamo preparando i giovani ad introdursi in nuove forme di lavoro e l’interrogativo che viene posto nei dibattiti, anche a livello internazionale, è se li stiamo preparando al futuro e quale idea del futuro abbiamo. Stiamo assistendo ad un impoverimento incredibile dei centri studi validi che operano sulla strategia. Anche attraverso studi sociali – come il Rapporto Italia che produciamo ogni anno – ci si accorge facilmente che in una fase di crisi, come quella portata dalla pandemia, le persone hanno ristretto le proprie prospettive future, i giovani pensano a medio-breve termine, nessuno fa più progetti. Per cui, da una parte avvertiamo l’esigenza di costruire un’idea di futuro, dall’altra, però, ci rendiamo conto che la gente è sempre più chiusa in sé. Una riorganizzazione di luoghi adeguati potrebbe colmare questa lacuna che è, al tempo stesso, una paura. Sono d’accordo sul creare un ponte fra Università e mondo del lavoro, però c’è bisogno di qualcosa di più che ragioni sulle strategie.
Cosmi: Sì, anche perché formare le classi dirigenti senza un contesto di riferimento intorno rischia comunque di renderle deboli. Da un punto di vista individuale è sicuramente fondamentale la formazione permanente, ma intorno chi e cosa agisce? Passo la parola al Generale Giancotti per capire come lo Stato si è strutturato per avere delle figure (e quindi uno sviluppo del capitale umano) preparate e formate in quello che considera un asset strategico fondamentale.
Giancotti: Ringrazio molto dell’invito e saluto i relatori. Non è un caso che condividiamo un forte interesse per tali tematiche, tanto che il mese prossimo si terrà una tre giorni proprio sul tema relativo alla costruzione della dirigenza per la Difesa e, più in generale, per il Paese, proprio come strumento di resilienza e di capacità complessiva del sistema, rilevante anche in termini di sicurezza. Le Forze Armate hanno avuto un sistema strutturato di formazione continua e, in particolare, negli ultimi decenni questa capacità è cresciuta e si è strutturata abbastanza bene. Devo dire che si è visto l’effetto di questo investimento. Quello che è accaduto di recente è che questa buona, tradizionale formazione è stata oggetto di una radicale trasformazione, un vero e proprio cambio di programma che ha attraversato questo Centro studi, ma non solo. La Difesa ha stabilito la necessità, emersa dalle operazioni concrete, dall’interazione con la realtà, di un nuovo modello culturale per la nostra dirigenza militare, in modo che fosse molto più agile, più capace di confrontarsi con ambienti incerti, volatili, ambigui. Partendo da questo punto, abbiamo focalizzato l’attenzione sul tema dell’innovazione; non a caso, nel luglio del 2019, è stato avviato il primo Master di II livello in “Leadership Change Management & Digital Innovation”, condotto con metodologie del tutto innovative dal punto di vista degli approcci. Questo contenuto è stato poi trasposto nei corsi regolari del Centro, in modo da aggiungere alla formazione tradizionale la formazione all’innovazione. Abbiamo anche cercato di ridefinire il Centro dal punto di vista dei processi interni proprio per adattarlo a questa capacità di innovare continuamente la formazione stessa. Attualmente stiamo digitalizzando in maniera molto incisiva tutto il Centro, soprattutto dal punto di vista della didattica e siamo riusciti ad intessere una rete di relazioni e collaborazioni in grado di collegarci alla società civile con crescente intensità. Qui al Centro formiamo la dirigenza strategica di tutta la Difesa e ci stiamo focalizzando sul trasmettere a questa dirigenza non solo la capacità di leggere i contesti strategici e geopolitici in generale, ma anche quella di pensare in modo propriamente strategico e innovativo. Questo sforzo è ripagato, perché ha delle implicazioni motivazionali oltre che metodologiche rilevanti e la partecipazione dei discenti a progetti concreti della Difesa è molto forte. Abbiamo imparato dall’esperienza che non si può agire in maniera isolata, soprattutto in un àmbito come quello della formazione, perché si rischia di perdere quella ricchezza che passa attraverso gli scambi – lo stesso concetto di rete, di hub, è al centro della nuova configurazione che stiamo cercando di realizzare – ma, soprattutto, non si ha quell’effetto di sistema fondamentale per superare le ulteriori sfide che, ad oggi, sono intervenute nel nostro Paese. L’azione collettiva, perché sia efficace, deve essere basata su una identità comune e su valori condivisi. La leadership ha la responsabilità di promuovere questa identità e questa coesione, e ciò si realizza intorno ai valori. Per noi uomini delle Forze Armate i valori sono un qualcosa di molto strutturato, ce li insegnano da piccoli e continuano ad insegnarceli durante la carriera, ma, soprattutto, li viviamo quotidianamente nel valore del servizio. Quindi è sicuramente fondamentale una ridefinizione chiara della necessità di creare identità intorno a dei valori comuni, perché questi valori sono centrali non solo per i militari, ma per tutti. Al di là dei molti particolarismi c’è un’attenzione crescente verso questo aspetto e ne sono felice.
Cosmi: Giovanni, come hai visto cambiare o, altre volte, frenare un Paese?
Giovanni Farese: Ringrazio per l’invito. Riprendo una riflessione del Segretario generale Ricceri, ossia che la nostra capacità di proiettarci verso il futuro in realtà dipende dalla nostra capacità di immergerci nel passato. Luoghi e valori vanno assolutamente insieme. Una classe dirigente degna di questo nome si è sempre formata sulla storia per avere cultura, ampiezza di orizzonti, immaginazione. Si dice spesso che in Italia non ci sono le Istituzioni; le persone sono importanti, ma ciò che manca sono proprio le Istituzioni (pubbliche e private) e la cultura delle stesse, ossia il senso e le strutture della continuità delle Istituzioni, che evidentemente è un qualcosa di impossibile da costruire senza coscienza storica. Penso che sia importante per una Istituzione rispondere alle seguenti domande: ha un archivio? Ha una biblioteca? Ha il culto della sua storia? Chi vi lavora conosce quella storia? L’essenza profonda di una Istituzione passa attraverso queste domande e quello che può comportare per chi lavora in tali contesti possedere la storia di quella realtà. La coscienza storica è quindi fondamentale per le Istituzioni e per costruire le strutture della continuità di cui parlavo. Il valore è essenzialmente questo, qualcosa che deve poter durare, altrimenti quel valore si depaupera nel tempo. Raffaele Mattioli verso la fine della sua vita pensava (e scrisse anche lo statuto) ad un istituto per lo studio della classe dirigente in Italia, cosa che ci riporta proprio alle tematiche oggi in questione. Ho ritrovato recentemente una frase di Malagodi che recita più o meno così: «Non c’è nulla di più bello che istruire un giovane intelligente e desideroso di progredire, ma non c’è nulla di più difficile che dover istruire con mille precauzioni un anziano che si crede perfetto», questo per ricollegarmi alla formazione individuale di cui si parlava prima. Ci sono state nella nostra storia molte Istituzioni che hanno svolto un ruolo fondamentale, come ad esempio la Banca d’Italia, che ha dato al Paese due Presidenti della Repubblica, due Presidenti del Consiglio (fino a questo momento), ministri e figure professionali internazionali. È oggi impossibile pensare ad una classe dirigente per l’Italia che non veda nell’apertura internazionale la strada maestra del nostro sviluppo. Dall’altro lato risulta fondamentale l’integrità morale, praticata senza pubblicità, vissuta senza retorica, con un netto disinteresse personale, e credo che questo aspetto fosse implicito anche nell’idea di servizio cui ci si riferiva prima. Un altro valore fondamentale per la classe dirigente è sicuramente il coraggio, quello che viene dalle convinzioni profonde. In un contesto di incertezza, che è quello in cui si collocano tutte le nostre decisioni, collettive ed individuali, ad un certo punto i dati, i fatti, le previsioni non bastano, e bisogna affidarsi a qualcosa di più profondo che risponda ad una destinazione, una meta collettiva, se volete anche ad una concreta utopia.
Cosmi: Quello che cerchiamo di condividere con il nostro Laboratorio è che il meglio delle persone, il meglio del capitale umano non c’è già stato, per cui quel senso di nostalgia di cui spesso si sente parlare non ha ragion d’essere, sta semplicemente a noi continuare a lavorare in questa direzione e non interromperlo. Lavoro che deve essere portato avanti anche in un contesto come quello delle Università e di questo ci parla Gianmario Verona, Rettore della Bocconi.
Gianmario Verona: Grazie per l’invito. La storia è sicuramente maestra di vita e in tal senso la storia del Novecento può esserci di aiuto in questo momento, poiché più volte questa pandemia è stata assimilata ad una guerra e proprio alla fine della guerra, grazie il Piano Marshall, abbiamo avuto la possibilità di risollevarci, diventando una potenza economica e politica di importanza mondiale. Oggi ci si ripresenta l’occasione – grazie al PNRR che è obiettivamente un qualcosa di poderoso e storico – di riuscire a compiere un’azione simile. Siamo stati per un anno e mezzo bloccati in casa e proveniamo da una situazione economico-politica molto complessa. Indipendentemente dalla pandemia il mondo si stava spostando verso nuovi orizzonti e paradossalmente questa tragedia può fornirci un nuovo modo per metterci in discussione. I 200 e passa miliardi che l’Europa garantirà all’Italia, se questa farà ciò che ha dichiarato in questo Piano, sono una cifra enorme, anche rispetto alle richieste fatte da altri Stati, per cui avremo davvero l’occasione di fare un qualcosa di straordinario. Per farlo, però, ci sono delle sfide da affrontare che interessano in primis il capitale umano, a cominciare da una sfida di contenuti, che personalmente vedo ben espressi nel Piano e che riguardano il momento storico attuale. Noi stiamo vivendo la quarta rivoluzione industriale e dico con un certo rammarico che le nostre aziende hanno fatto finta che il digitale non esistesse. La nostra politica lo ha vissuto soprattutto in termini di post su Facebook, ma in realtà il digitale è la quarta rivoluzione industriale. Occorre, quindi, mettere in campo una riorganizzazione dei processi industriali e organizzativi all’interno dell’azienda, e questo è complicatissimo. È un bene che le Forze Armate per prime ripensino ad una nuova formazione della classe dirigente in termini di digitale e di sostenibilità, perché significa che il cambiamento è già in atto. Dobbiamo cercare di rileggere le competenze e per farlo la formazione è essenziale e deve riguardare tutte le schiere di persone che sono nel mercato del lavoro da anni e che devono essere riaggiornate dal punto di vista delle competenze. Ci sono persone che ovviamente non hanno il tempo di tornare a studiare, e questo tipo di formazione mi sembra ancora abbastanza latente nel nostro Paese. Alla Bocconi abbiamo la fortuna di avere una scuola molto attiva, tuttavia in Italia le scuole di formazione non sono tantissime ed è importante che ci sia un ricorso sistematico che venga fatto per riaggiornare le competenze di chi è già sul mercato del lavoro. Questa sfida di aggiornamento del capitale umano non riguarda solamente le Università, ma anche le future generazioni: la riforma da fare sulla scuola è una riforma poderosa. La scuola deve essere in grado di dare anche altri stimoli, deve servire ad imparare un po’ di diritto, le basi minime dell’economia, elementi pratici che sono importantissimi nella vita quotidiana. La nostra penalizzazione rispetto alla Germania e ad altri paesi è proprio legata a questa nostra incapacità di immettere nel mercato del lavoro ragazzi più giovani che non hanno un’istruzione universitaria ma che magari posso andare a svolgere dei mestieri applicativi molto importanti. Dal mio punto di vista il PNRR è straordinario, ha però una lunga premessa, che è il capitolo sulle riforme. Se questo capitolo viene realizzato il PNRR sarà un nuovo piano Marshall e l’Italia avrà un ruolo competitivo per i prossimi 20 anni; se quelle riforme non verranno fatte probabilmente l’Europa non ci darà neanche i soldi; se verranno fatte in modo un po’ “malandrino” come spesso siamo soliti fare nella politica italiana probabilmente avremo i soldi, ma non ci porteranno da nessuna parte.
Cosmi: Che linea adotterebbe, se dipendesse da Lei, per ridisegnare l’iter di selezione della classe dirigente?
Gianmario Verona: Parto dal presupposto che sono state scritte delle riforme importanti, non sono dettagliate, ma potenzialmente sono importanti, e abbiamo un ottimo Ministro all’Istruzione e un ottimo Ministro all’Università, collega che ho avuto modo di conoscere, perché siamo stati Rettori in un momento contingente; la Professoressa Messa è la persona giusta al posto giusto. Da questo punto di vista bisogna avere il coraggio di riuscire ad implementarle, anche senza ascoltare troppo le voci della politica che tendono a “slabbrare” queste riforme e a trasformarle in un qualcosa di molto diverso rispetto a ciò per cui sono state concepite. Credo sia importante avere un cambiamento di passo, soprattutto per quanto riguarda il settore della riforma universitaria, che ha un mondo sempre più autoreferenziale che si distacca dai competitori internazionali che ormai hanno una velocità piuttosto significativa. Il tema della “fuga dei cervelli” è un qualcosa di evidente dal punto di vista numerico ed empirico nel mondo accademico, quindi, questa riforma non deve essere una riforma di consenso, ma deve essere una riforma sicuramente guidata da un benchmark internazionale, che ci ha dimostrato cosa funziona e cosa non funziona, e deve essere poi implementata col coraggio che naturalmente richiede un tipo di innovazione di questo tipo.
Ricceri: Volevo cogliere l’occasione della presenza di questi illustri relatori per approfondire un punto: nella strategia della sostenibilità e dell’Agenda 2030 c’è un passaggio chiave continuamente ripetuto dagli organismi internazionali, dall’OCSE, dalla stessa Unione europea, ossia quello di superare, nel mondo della ricerca scientifica e dell’istruzione, l’organizzazione per silos – ossia il professore di diritto vive nel suo mondo, a compartimenti stagni, non parla con l’economista, col sociologo, con l’antropologo etc –, e di avviare delle esperienze interdisciplinari e transdisciplinari. Sarebbe interessante capire da voi, che siete sulla frontiera dell’attività di ricerca, se l’avete nell’agenda questo tipo di obiettivo e come pensate eventualmente di organizzarlo. È importante, significa preparare i giovani non soltanto al lavoro, job ready, ma anche future ready, cioè, a quel lavoro interdisciplinare che ti consente di entrare nella complessità delle questioni e provare anche a ricavare dei fini. Ha ragione il Rettore sul programma del Governo, perché è venuto da noi un direttore che lavorava alla Presidenza del Consiglio a farci presente che l’ultimo piano di programmazione fatto in Italia risale alla metà degli anni Settanta, questa è la prima volta che lo Stato italiano fa un piano di ricostruzione al 2026/2030, cioè abbiamo un intervallo di quasi quarant’anni, di oltre quarant’anni. L’altro punto è come organizzare il superamento dei silos e la collaborazione interdisciplinare.
Cosmi: A maggior ragione, tra l’altro, nella scuola, come l’esempio che faceva il Rettore: quelle che puntano sul classico poi non parlano di economia, di diritto e così via.
Ricceri: Uno degli argomenti più evidenti che è emerso con la Rivoluzione Industriale: come regoli dal punto di vista legislativo il robot, l’Intelligenza Artificiale se non entri anche nel mondo etico, nel mondo economico, nell’antropologia? Abbiamo bisogno di questo intreccio, e ciò vale anche per i problemi della sicurezza, perché molte tensioni nascono al di fuori del contesto semplicemente militare.
Verona: Questa è una delle sfide, la riorganizzazione dei saperi. Io menziono sempre questo paradosso rispetto al mondo anglosassone che – c’è chi lo ama e chi no, e ci sono spesso polemiche su quotidiani, anche nazionali, e sull’importanza di una cultura classica anziché di una cultura legata al pragmatismo, tipica dei paesi anglosassoni – perché a conti fatti, se uno guarda le posizioni a livello formativo, anche industriale di questi paesi, effettivamente, ci si deve porre delle domande. Una delle caratteristiche differenziali che abbiamo noi, in particolar modo in Italia, non necessariamente in Europa, ma in Italia sicuramente, è di costringere, come giustamente Benedetta Cosmi ricordava, una ragazza a decidere, a tredici anni, se diventa più umanista o se diventa più legata al mondo delle scienze, a costringere una ragazza o un ragazzo di diciotto anni se diventare avvocato, o medico o ingegnere o pilota e così via. Questo è un paradosso, perché nel mondo anglosassone è una scelta che viene fatta dopo almeno tre anni di università dove, innanzitutto, non ci sono queste categorie logiche a livello di high school, quindi a livello di liceo; c’è anche una tensione, anzi, molto forte rispetto alle discipline un po’ più pratiche e poi i primi due tre anni del cosiddetto bachelor, quindi, i primi anni universitari sono generalisti e permettono alle persone di appassionarsi: io posso fare un corso di fisica e seguirne uno di musicologia, per dire, proprio per garantire quel binomio che è stato giustamente menzionato di questo paradosso del robot che non capisce di etica e, di conseguenza, quando dobbiamo programmare l’auto che si autoguida non sappiamo se è costretta a fare un incidente e che tipo di danno farle provocare, perché ci vuole un professore di filosofia morale per farlo. Allora questo problema del non mettere insieme i saperi è un problema devastante. Vi racconto questo aneddoto: quando ho voluto introdurre il corso di Computer Science, in tutti i programmi Bocconi – noi abbiamo giurisprudenza, scienze politiche, economia, management –, a livello ministeriale, non mi permettevano di farlo, perché per farlo avrei tolto dei crediti ad una materia legata a questi quattro grandi blocchi che caratterizzano le lauree Bocconi, che avrebbero portato a togliere il titolo di scienze politiche, giurisprudenza, etc. Quindi, ho forzato il curriculum costringendo gli studenti a fare un corso in più. Fortunatamente il rettore alla Bocconi non è eletto, ma nominato, così non ho avuto il problema di negoziare la cosa con gli studenti, ma ritenevamo nella governance Bocconi, che fosse la cosa giusta da fare. Questo è paradossale. È solamente un piccolo esempio che amo fare per illustrare cose che l’attuale Ministro conosce molto bene e che, infatti, sta cercando di cambiare. Banalmente già andare verso le cosiddette aree dell’IRSI europeo, quindi aree di ricerca che non “spacchettano” l’economia in venti rami, ma parlano sostanzialmente di economia, sarebbe già un grandissimo vantaggio, una importantissima evoluzione, perché mettere insieme i saperi è fondamentale; chiaramente la specializzazione deve spaccare il capello, ponendo attenzione al fatto che non si tratta di sapere un po’ di tante cose ma poi niente in profondità. La profondità deve essere acquisita, ma deve essere acquisita nel tempo, non deve essere forzata, perché crea grandi frustrazioni, grande disoccupazione anche legata al fatto che i ragazzi, magari, volevano fare gli avvocati giuristi e si rendono conto che quando hanno già ventun anni non vogliono più fare il giurista e si devono laureare per forza e poi alla fine fanno fatica a trovare lavoro. E questo è un errore madornale che abbiamo all’interno del sistema.
Cosmi: Esatto, io lo definisco l’imposizione dell’out out anziché il mix flessibile che è poi quello di cui si ha voglia. Immaginate nel nostro territorio, in Lombardia, con il Salone del Mobile, qual è il vero studio che fa chi è appassionato di quella filiera? Non c’è un vero studio, perché non c’è qualcosa che contemporaneamente permette di conciliare falegnameria, economia, marketing, ambiente, giardinaggio e via dicendo. Credo comunque che i tempi siano maturi, perché questa interdisciplinarietà piace allo studente, al rettore, piace al Ministro. Non si capisce davvero chi frena il cambiamento, a questo punto.
Giancotti: Questo tema mi sta molto a cuore, perché il nostro focus è proprio sulla capacità di leadership strategica, cioè comprendere a livello strategico e agire di conseguenza, creare effetti a livello strategico. Questo aspetto non si forma con una cultura dei silos, non si forma a quaranta o a quarantacinque anni. È un qualcosa che va seminato presto ed è il motivo per cui noi siamo stati spinti dalla pressione degli eventi, della storia, a ridisegnare i nostri curricula. Io sono stato protagonista diretto di questo quando ero Comandante dell’Accademia: siamo transitati al Dipartimento di Ingegneria, però abbiamo fatto una laurea multidisciplinare molto forte, vigorosa, con l’allora Rettore Gaetano Manfredi e, tuttavia, ampia e rispondente alle varie esigenze; poi le nostre specializzazioni le facciamo perché usciti dall’Accademia dobbiamo operare sistemi d’arma altamente sofisticati come l’F35, l’Eurofighter e lì devi veramente andare deep, “dentro” quel silos, ma lo fai avendo una comprensione, diciamo almeno iniziale, strutturale, di sistema, e quando arrivi a livello strategico, questo è ovviamente ancora più necessario, ma si sviluppa su basi diciamo già opposte. Insegno ormai da otto anni in un corso di laurea del Dipartimento di Economia di Tor Vergata che si chiama Global Governance, che è proprio costruito in questo modo, e posso dire che dopo tanti anni i risultati sono veramente incredibili, soprattutto in termini di capacità di questi ragazzi, non lo dico perché lo dicono i piazzamenti, ma perché li vedo, vedo la differenza netta tra quelli che escono da questa formazione e tutti gli altri. È una laurea triennale e proprio domani con l’Ambasciatore Massolo presenteremo la laurea magistrale.
Cosmi: In cosa, in particolare, è tangibile questa differenza?
Giancotti: Su due aspetti: innanzitutto l’approccio al problem solving, alla gestione dei problemi e delle sfide, e poi la motivazione. Un tipo di corso molto coinvolgente, dove c’è molta cura degli studenti, adesso non posso declinare come, ma c’è molta cura degli studenti, e c’è sì rigore – proprio ieri abbiamo fatto un consiglio di disciplina per quattro studenti –, ma anche molta attenzione sull’investimento culturale, anche transdisciplinare, perché ci sono delle iniziative di questo genere, crea dei cicli motivazionali, degli ipercicli motivazionali per cui sono molto più carichi, molto più motivati i ragazzi, che stanno in una dinamica complessiva del genere, che è sì basata su diverse discipline, ma che è anche un processo, come dire, di leadership, è il caso di dire, trasversale, che le collega.
Cosmi: Noi la ringraziamo e le auguriamo buon lavoro per la sfida successiva. Grazie di questo contributo e di aver ricordato cosa poi rende un corso utile.
Giancotti: Grazie, sono davvero onorato e ringrazio per aver avuto questa occasione di ascoltare.
Ricceri: Generale, avete dei tavoli di lavoro interdisciplinari, per esempio questa Global Governance che riunisce giuristi, economisti, sociologi, etc?
Giancotti: Questa è un’ottima domanda. Ci sono diverse materie e poi ci sono degli eventi di collegamento trasversali. Si sta lavorando per aumentare la sinergia tra le materie, per esempio quest’estate ci sarà un simposio transdisciplinare (Global Governance Symposium) che collegherà, su alcuni temi scelti dagli studenti, tutte le discipline, e ci sono proprio relatori internazionali che verranno a parlare di questo. Si sta studiando, in questo corso, anche una maggiore integrazione tra le materie, lasciando però l’identità alle singole discipline, perché quella comunque diventa importante anche come accumulatore di competenze e di conoscenze.
Cosmi: Proseguiamo su questa scia. Cos’è che ha reso possibile nel passato lasciare una traccia così evidente della presenza di quelle istituzioni, di quei personaggi che invece oggi rischia di non avvenire? Non avviene a causa della velocità con cui cambiano le cose, i nomi, le sigle, le immagini, i ruoli? O, magari, perché questi sono rimasti, per tanti anni, nella stessa posizione, invariati, immutabili, e ciò li ha in qualche modo rafforzati? Un po’ come i cantanti che adesso sembrano meteore, vivono di luce riflessa per pochissimo tempo, in quell’anno non si parla d’altro, e poi da un momento all’altro spariscono, mentre i nomi degli stessi cantanti che vivevano in quelle stesse epoche culturali di cui parlavamo, rimangono intergenerazionali. Cos’è, e passo la parola a Giovanni, che sta rischiando di non lasciarci spazio per il futuro? I grandi nomi, le grandi istituzioni – che tu hai giustamente chiamato “l’effetto di sistema”?
Giovanni Farese: Ne dico due, ma se ne potrebbero dire varie: il primo è l’autonomia e l’indipendenza di giudizio. Intendo, soprattutto, autonomia dalla politica dei partiti. Se pensiamo alle istituzioni che ho citato, la storia lì è stata di un certo tipo fintanto che c’è stata autonomia e indipendenza di giudizio, ed è stata diversa in una fase successiva. Questo vale per tante altre istituzioni, per le grandi banche, le imprese, le università. Il secondo, è quello che dicevo prima, il senso della continuità, cioè la coerenza e la visione di fondo. Le persone possono cambiare, ma una istituzione mantiene una coerenza, una visione di fondo. Questa è quella che poi esprime una classe dirigente, ed è quello che si è un po’ perso nell’attività di governo, insomma, nelle grandi scelte di fondo degli ultimi decenni, sono state fatte, disfatte e poi rifatte dalla maggioranza di turno, questo è ciò di cui si sente più fortemente l’assenza. Volevo tornare su due cose che ha detto il Prof. Verona, con le quali ero totalmente d’accordo. Primo: gli obbiettivi. Forse per la prima volta dopo la fine della seconda Guerra Mondiale, stiamo decidendo degli obiettivi e delle mete, cioè che tipo di società vogliamo; queste due grandi transizioni, quella ecologico-inclusiva – perché poi c’è un elemento di inclusione sociale nella transizione ecologica – e quella digitale-tecnologica fissano, per la prima volta, degli obiettivi e delle mete che non vengono lasciati, diciamo così, agli automatismi, o agli spontaneismi, che non sono solo quelli del mercato, ma possono essere anche quelli di regole troppo rigide, quindi, deliberatamente, stiamo fissando di nuovo delle mete, degli obiettivi. Riusciremo a raggiungerli? Non ci riusciremo? Questo è importante, ovviamente, ma a me interessa soprattutto questo cambiamento di fondo cioè, di nuovo, stiamo fissando delle mete. La seconda cosa è sull’incontro e sull’integrazione tra i saperi. Per un po’ di tempo ci siamo raccontati la storia, che in larga parte è vera, per cui la cultura umanistica dominava sulle altre, ma questa non è la nostra storia. Se noi torniamo all’Umanesimo e al Rinascimento come facciamo a dire Leonardo da Vinci che cos’è, un grande letterato, o un grande scienziato? E così per tanti altri. Io posso insegnare la letteratura leggendo gli Aforismi di Leonardo da Vinci e posso studiare le scienze leggendo un racconto di Italo Calvino o di Carlo Emilio Gadda, che era un ingegnere. Questa integrazione è parte della nostra storia, e noi dobbiamo tornare a dove eravamo, in un certo senso senza fare della nostalgia, come dicevi tu, ma recuperando quegli elementi che ci possano utilmente proiettare in un futuro che sarà diverso, ma in cui questa integrazione è fondamentale.
Cosmi: A chi ci ascolta, dove li inviti ad andare? A proposito degli archivi e delle domande che hai posto all’inizio – chiedevi se c’è un archivio, se c’è una biblioteca, penso alle biblioteche scolastiche e le scuole che ce le hanno, ovviamente, rappresentano una promozione culturale di un certo tipo fondamentale, un avvicinamento anche a quell’idea che la scuola appunto è qualcosa di più dell’essere semplicemente nozione e, quindi, è anche l’educazione a frequentare luoghi. Quindi, quali sono questi luoghi nei quali inviti ad andare? Due anni fa c’è stata la polemica della biblioteca di New York, pubblica, bellissima, frequentatissima, addirittura a difenderla sono scesi gli attori. Non credo che un qualcosa di simile avverrebbe da noi, perché non c’è neanche una biblioteca così frequentata, amata, vissuta. Quindi, dove li manderesti? E come si accede, perché a volte serve una grande pazienza, devo dire, per accedere alle biblioteche italiane e agli archivi.
Giovanni Farese: Oggi c’è un intero campo che si chiama Digital Humanities che riguarda anche la digitalizzazione degli archivi, quindi non bisogna vivere una contrapposizione di fondo tra questi due mondi. Certamente come dici tu, la bellezza delle biblioteche, diciamo interdipartimentali, oppure universitarie risiede soprattutto nella possibilità di scambiare idee e conoscenze per chi studia fisica, diritto, medicina, economia, ecc. Per un giovane che si trova a visitare la biblioteca nella propria scuola è importante conoscere chi ha calcato quegli stessi luoghi, trarne degli elementi di giudizio, degli esempi di diagnosi, di interpretazione. Però, penso che sia emerso dalla conversazione che abbiamo avuto oggi pomeriggio anche un invito ad andare, diciamo così, “dove ci pare”, nel senso che l’immaginazione e la passione che mettiamo nelle cose, e la motivazione, penso che siano emersi come dei tratti fondamentali; lo diceva prima anche il Rettore, il Prof. Verona, insomma, una grande idea può venire ad un fisico mentre ascolta la musica, mentre coltiva le sue grandi passioni, perché quello gli dà la motivazione, l’immaginazione. È importante visitare questi luoghi della nostra memoria, della tradizione, come sono gli archivi e le biblioteche. E lo ripeto con le parole di un grande storico francese «chi vuole conoscere solo il presente, finisce per non capire neanche il presente»; quindi, c’è bisogno della conoscenza storica e della coscienza storica. Però, allo stesso tempo, lo stimolo che viene dall’immaginazione, dalla passione, dalla motivazione, va coltivato in modo assolutamente trasversale ed originale.
Cosmi: Chiudiamo da Milano, una città sicuramente trainante che ha avuto il suo anno orribile e che punta molto sulle Università, un qualcosa che negli ultimi anni ha suscitato grande orgoglio. Milano non credeva di essere una città universitaria, si è scoperta e ha cominciato a provare orgoglio, per chi la sceglie, per chi la vive, quindi tutto l’indotto economico ma anche di idee, di freschezza che rappresenta quel mondo di giovani che lei frequenta e aiuta a diventare utile capitale umano. Da quella Milano da cui ci parla, che forse sta ripartendo, che segnale possiamo evidenziare oggi, in questo contributo ai luoghi e ai valori?
Verona: Sono molto positivo. Era il week-end del 22 febbraio del 2020, e vi confesso che non ho dormito per il resto delle tre settimane, perché sembrava che Milano e la Lombardia fossero esportatori netti nel mondo di Coronavirus e ho pensato che purtroppo il mondo per la nostra città si sarebbe fermato per tanto tempo. In realtà poi, abbiamo scoperto che la pandemia si è semplicemente palesata qui, ma era già dilagata anche in altri paesi, magari in modo più tacito. Stiamo ripartendo alla grande, io credo. Come è stato ben detto, le Università milanesi sono più giovani rispetto a quelle italiane, sono probabilmente più anziane di molte università mondiali però, effettivamente, avendo l’Italia inventato le Università nell’anno Mille, ed essendo, appunto, le università milanesi – ad eccezione del Politecnico di Milano che è del 1884 – tutte del Novecento, diciamo che sono effettivamente più giovani e Milano si è scoperta una città universitaria perché abbiamo più di 220mila studenti, tra l’altro con delle eccellenze umanistiche, ingegneristiche. A livello economico devo dire che sono ottime università. Stiamo diventando, sempre più, un Campus, lo è Bocconi, ovviamente, con la sua struttura nella zona di Porta Romana dove siamo, e lo è sempre di più anche il resto della città con le altre Università. Devo dire che questa sarà una ripresa anche nell’ambito della riorganizzazione. Abbiamo parlato più volte con il Sindaco, con la Regione, chiaramente al centro anche il capitale umano, la formazione. La parte di Scalo di Porta Romana, che è di fronte a Bocconi, sarà probabilmente non solo adibita a villaggio olimpico della Milano-Cortina, ma in coda verrà anche concessa agli studenti universitari come residenza, quindi, diventerà sempre di più una città accogliente in grado di mantenere il suo vantaggio competitivo in una serie di settori anche molto importanti come la finanza, il design, tutto il mondo legato alla moda. Sono ottimista, con una giusta attenzione all’importanza del coraggio che dobbiamo avere per implementare queste riforme, perché è importante avere il coraggio di cambiare visto che non ci saranno altre occasioni di questa natura e visto che, ripeto, ci indebiteremo in modo strutturale. Eravamo già uno dei paesi a più alto indebitamento, come sapete, dopo la Grecia; a questo punto, con questo 160%, dobbiamo necessariamente crescere a livello economico per poterci rifare. Abbiamo tutte le qualità, che sono state ben espresse in questo dibattito e che sono state ricordate anche dal Prof. Farese. Storicamente il nostro intelletto italiano è creativo perché riesce a funzionare come due gambe, è profondo in due campi, quindi, riesce effettivamente a fare delle cose straordinarie e la nostra industria è figlia proprio di grandi industriali che hanno capito questa doppia profondità. La creatività ce l’abbiamo, abbiamo imparato anche ad ottenere le risorse; dobbiamo sviluppare una capacità organizzativa che effettivamente ci manca, rispetto anche ad altri Stati del Nord Europa; dobbiamo essere un po’ più abili nel riuscire a rispettare le regole, ad organizzarci in modo meno individualistico e più attento alla collettività. E questa è una cosa che cerchiamo di insegnare anche a livello universitario, vedo che in tante Università si ha sempre più attenzione ad insegnare non solamente i contenuti, ma anche le cosiddette behavioural skill, come vengono chiamate le skill comportamentali, che sono molto importanti; dovrebbero essere insegnate anche a scuola, in realtà, perché la capacità di leadership banalmente è una capacità che aiuta a capire come stare attenti di fronte ad una persona che ha leadership, quindi, non semplicemente esercitare la propria leadership; riuscire a saper comunicare, a saper ascoltare, sono capacità che dobbiamo insegnare per avere un Paese che, a fronte della straordinaria intelligenza, riesca anche a mettere in campo una capacità più di carattere organizzativo. Speriamo di riuscire a far sì che anche chi è già sul mercato da tanti anni riesca effettivamente con i corsi di formazione, con tutte le opportunità che verranno offerte, ad aggiornarsi, sia da un punto di vista tecnico su queste nuove sfide che la quarta Rivoluzione Industriale ci pone, ma anche su questi aspetti che sono sempre più importanti all’interno del mercato del lavoro.
Cosmi: Bene, io vi auguro di saper attrarre anche capitale umano dal mondo, i migliori dal mondo, perché questo migliorerà il Paese, oltre che Milano. Questo nell’ottica di attrarre cervelli, piuttosto che alimentarne la fuga, con l’idea che “internazionale” non significa necessariamente andare all’estero, ma può significare portare l’estero in Italia. Questo significa anche non lasciare che le Istituzioni siano la mera rappresentazione di cavilli burocratici che finiscono per svilire e demoralizzare un intero paese. Un paese ha bisogno di non sentirsi frustrato nelle sue aspettative, nei suoi sogni anche di futuro e di capacità. Chiedo un’ultima cosa: secondo voi questo Laboratorio chi altro deve sentire, con chi altro deve interloquire e come può dare a voi un contributo costante?
Verona: Io sono un’amante dell’apertura culturale a livello internazionale, quindi credo che ascoltare anche qualche collega nei campi che state già esplorando, che abbia però appunto esperienza internazionale importante, sia molto significativo. Trovo sempre rilevanti spunti da persone che hanno culture diverse dalla nostra e che magari stanno facendo con successo alcune attività. Sul fronte del capitale umano, dicevamo prima, i paesi anglosassoni sono molto bravi, e credo che anche i paesi asiatici stiano dimostrando una velocità di apprendimento che molti paesi europei non hanno. Se penso a molte scuole in Corea, in Cina, sono cresciute in vent’anni come tantissime Università e scuole europee non sono riuscite a crescere nonostante, appunto, avessero chiari dei benchmark a livello mondiale. Imparare anche dalle best practices è importante; sentire culturalmente qualcuno che, da una parte o dall’altra del globo sta facendo con successo innovazioni nel capitale umano è sempre una cosa utile. Questo è uno spunto generale ma abbastanza specifico dal punto di vista delle idee.
Giovanni Farese: Concordo con questa osservazione sull’apertura internazionale, dall’Asia possono venire spunti molto importanti. Guarderei anche all’Africa, io lo faccio con crescente interesse. Anche da lì penso che possano venire spunti interessanti e, certamente, allargare in termini di diversità i contributi. In fondo oggi abbiamo condotto questa conversazione dalla nostra prospettiva che è quella sostanzialmente delle scienze economico, sociali, politiche, ma insomma, allargare e ampliare le competenze delle persone coinvolte, in termini di diversità anche disciplinare, se vogliamo continuare ad utilizzare queste etichette che poi spesso conducono a delle autarchie disciplinari che sono controproducenti è, secondo me, insieme all’apertura internazionale, fondamentale.
Cosmi: Bene, ringrazio chi ci ha seguiti, ringrazio voi e anche la tecnologia che ci ha permesso di raggiungerci anche da città diverse però con la promessa di vederci presto fisicamente. Grazie, e buon lavoro.
Il testo è disponibile anche in inglese https://eurispes.eu/news/human-capital-places-and-values-training-the-executive-classes-27-05-2021/