Agromafie
2° Rapporto sui crimini agroalimentari in Italia
Documento di Sintesi

Capitolo 1 | Le nuove forme di Italian Sounding

La forma più classica di Italian sounding consiste nella commercializzazione di prodotti non italiani con l’utilizzo di nomi, parole, immagini che richiamano l’Italia, inducendo quindi ingannevolmente a credere che si tratti di prodotti italiani. È una forma di falso Made in Italy molto diffusa in àmbito internazionale nel settore agroalimentare, nel quale il nostro Paese può vantare una grande varietà di eccellenze. Oggi occorre però non trascurare la diffusione, accanto a questa pratica totalmente illecita, di una forma più raffinata di Italian sounding, legale, seppur, nei fatti, ingannevole. Se in passato era frequente la pratica di acquistare all’estero le materie prime per alimenti poi trasformati e lavorati in Italia e venduti come Made in Italy, in questi anni si è invece diffusa in misura crescente la tendenza a rilevare note aziende agroalimentari italiane. In questo caso il nome non soltanto suona italiano, ma viene unanimemente associato all’azienda che dal momento della sua nascita, per anni, ha messo sul mercato il prodotto. Il fenomeno si è notevolmente intensificato nel nuovo Millennio e mostra ulteriori segni di crescita negli ultimi tre anni. Quasi tutti i settori alimentari sono stati coinvolti, dalle bevande alcoliche ai dolci, dai salumi ai latticini. Gli acquirenti sono soprattutto aziende francesi, svizzere, spagnole e statunitensi. La Francia si è concentrata sul settore caseario, la Spagna sull’olio, i colossi multinazionali svizzeri e statunitensi hanno diversificato gli investimenti orientandosi su tipologie eterogenee di prodotti.

Il marchio Made in Italy a rischio. L’assorbimento di una fetta tanto importante del comparto agroalimentare nazionale da parte di aziende estere comporta lo svuotare di sostanza il marchio del Made in Italy, poiché sono sempre di più le realtà industriali, grandi e piccole, ormai italiane solo di nome. In molti casi il cambio di gestione determina una perdita della qualità, come conseguenza della delocalizzazione produttiva e della scelta di materie prime non locali. Piuttosto che la valorizzazione della diversità – che rappresenta uno dei valori del Made in Italy autentico – si favorisce l’omologazione. Questa particolare forma lecita di Italian sounding finisce anche per infrangere il patto di fiducia con i consumatori, tradendone di fatto le aspettative. È un paradosso tutto italiano. Da un lato si mobilitano energie per diffondere anche nei cittadini meno attenti la consapevolezza del valore aggiunto offerto dal marchio nazionale e si utilizza il Made in Italy come volano di un settore, quello alimentare, sempre più centrale in tempi di crisi. Dall’altro lato una parte tanto consistente di quelle imprese che del Made in Italy stesso erano rappresentative porta ormai bandiera straniera. Va ricordato che alcuni dei marchi italiani assorbiti da aziende straniere hanno potuto beneficiare di un processo di efficace riorganizzazione, rilancio e rafforzamento finanziario. Alcune realtà che rischiavano la chiusura sono riuscite a sopravvivere e, con un gruppo multinazionale forte alle spalle, a reggere il confronto con il nuovo mercato globalizzato. In generale, però, almeno nel settore agroalimentare, l’acquisizione da parte di aziende straniere coincide con lo svuotamento della componente realmente italiana del marchio e, talvolta, con l’assorbimento della concorrenza italiana o con una concorrenza irresistibile nei confronti delle altre imprese italiane dello stesso settore merceologico. Esiste inoltre la possibilità che i gruppi stranieri proprietari di aziende agroalimentari un tempo italiane si spingano a chiudere gli stabilimenti italiani e a trasferire l’intera produzione all’estero, dove i costi sono più contenuti. In questo caso si devono considerare i risvolti occupazionali del passaggio di proprietà, per la perdita di posti di lavoro in un settore cardine qual è quello dei prodotti alimentari fortemente connotati come italiani. Senza considerare i danni ambientali derivanti dal venir meno degli investimenti per il mantenimento del territorio.

In questo meccanismo distruttivo basato sul classico Italian sounding e sulle sue forme più raffinate e legali, ma anche sull’agropirateria nelle sue diverse declinazioni, l’Italia è al tempo stesso vittima e colpevole. Sono molte le aziende costrette, per sopravvivere, ad adeguarsi a regole imposte dai grandi gruppi: produrre a costi bassissimi per restare sul mercato, il che è possibile solo ricorrendo a materie prime scadenti, sacrificando quindi la qualità. I danni che ne derivano sono molteplici: la privazione del marchio, l’abbassamento progressivo della qualità dei prodotti, l’imposizione di standard produttivi bassi alle aziende locali, che dovrebbero essere custodi delle produzioni tipiche e si trovano invece costrette a fare scelte che le mantengano competitive. Chi perde maggiormente in questo meccanismo sono da un lato i produttori locali, costretti ad abbassare qualità e prezzi, impoverendosi, dall’altro lato, ovviamente, i consumatori, cui arrivano prodotti sempre più scadenti. Nella dinamica che si sta così affermando gli alimenti falsi e di bassa qualità non sono soltanto quelli prodotti all’estero, ma anche quelli provenienti dalle aziende italiane.

L’Italia controlla, l’Europa apre le frontiere.L’Unione europea si configura come una delle aree di libero scambio più grandi del mondo, con un bacino di circa mezzo miliardo di utenti/consumatori. La libera circolazione delle merci impone agli Stati Membri un certo grado di corresponsabilità in merito a questioni estremamente sensibili, soprattutto nell’ambito della tutela del consumatore. Tale aspetto è particolarmente rilevante per quanto concerne il settore agroalimentare, dove i concetti di sicurezza e controllo della qualità diventano assolutamente centrali. La disparità tra le singole normative nazionali, la poca chiarezza della legislazione comunitaria, la discrepanza nei controlli alle frontiere esterne, rappresentano fattori che incidono non solo sulla “salute” del cittadino, ma anche sugli orientamenti economico-produttivi di un mercato volatile e soggetto ad una concorrenza estera sempre più pressante. Un nodo cruciale è rappresentato dalla labile linea di separazione tra prodotti “commestibili” e prodotti “di qualità”, la cui demarcazione non sembra essere possibile se non attraverso valutazioni di tipo soggettivo, influenzate più da fattori culturali che da parametri scientifici. La protezione dei prodotti genuini è una priorità soprattutto per alcuni Stati Membri, principalmente del Sud dell’Europa, che operano per difendersi da una concorrenza spesso ai limiti della legalità. In questo senso, la questione dell’etichettatura dei prodotti diventa centrale; tuttavia, l’Unione europea non sembra aver raggiunto un grado di raccordo soddisfacente in merito. L’infiltrazione criminale nel settore agroalimentare trae linfa dalle mancanze della normativa comunitaria, in quanto i produttori sono continuamente in cerca di soluzioni, anche illegali, per abbattere i costi e rimanere competitivi sul mercato.

Le cifre delle importazioni alimentari. Secondo i dati Eurostat, nel 2012 le importazioni di cibo e bevande all’interno dell’Unione europea hanno sfiorato i 370 miliardi di euro, di cui il 25% utilizzati per prodotti provenienti da paesi terzi. Per quanto concerne l’Italia, il settore ha raggiunto nel 2012 un valore superiore ai 30 miliardi di euro, in leggero calo rispetto all’anno precedente ma comunque pari a circa il 2% del Pil. In termini comparativi, il nostro Paese continua a importare meno rispetto agli Stati Membri più grandi, come Regno Unito e Germania, posizionandosi immediatamente dietro alla Francia. Il peso delle importazioni dai paesi extracomunitari è pari nel 2012 al 25% degli scambi totali (+5% rispetto al 1999) e in linea con i valori medi registrati in Europa. In valore assoluto, tuttavia, gli italiani continuano a prediligere ampiamente i beni alimentari prodotti all’interno della Comunità, come dimostrano i 25 miliardi spesi nel 2012 rispetto agli 8 miliardi utilizzati per prodotti di paesi terzi. Ad arrivare sulle nostre tavole, dunque, sono prevalentemente alimenti prodotti all’interno dell’Unione europea. Tra i primi 15 partner commerciali nel settore agroalimentare figurano solamente tre paesi extracomunitari: Brasile, Argentina e Stati Uniti, rispettivamente in settima, nona e quindicesima posizione. Ai primi posti rimangono Francia, Germania e Spagna, i cui prodotti sono tradizionalmente integrati nel sistema alimentare italiano. La posizione di partner quali i Paesi Bassi, il Belgio e la Danimarca si spiega con la presenza in questi paesi di grandi aree portuali e importanti multinazionali del cibo, che importano beni intermedi e applicano l’ultima trasformazione al prodotto finale, esportandolo in tutta Europa. Dall’estero arrivano prevalentemente preparati a base di carne (14,5%), frutta e verdura (13,6%), pesce (12,8%). Pur tenendo in considerazione la discrepanza tra partner intra-Ue ed extra-Ue, emerge che dai paesi terzi gli italiani acquistano soprattutto pesce, frutta e verdura, oltre alle spezie e al caffè, mentre i “vicini” europei forniscono maggiormente carne e prodotti lattiero-caseari.

Legislatori e controllori. Sul piano della struttura organizzativa, il legislatore europeo ha optato per un sistema a “ragnatela” al cui centro si pone l’Autorità Europea per la Sicurezza Alimentare (Efsa), istituzione che accentra le funzioni di valutatore scientifico dei prodotti e di gestore del network delle autorità nazionali competenti. L’agenzia lavora in stretto contatto con la Commissione Europea e in particolare con la Direzione Generale Salute e Consumatori, organo preposto all’iniziativa legislativa in materia di tutela del consumatore. Esistono, però, notevoli lacune, in particolare per quanto concerne l’amalgama tra le normative nazionali e quelle comunitarie. I livelli di protezione possono essere significativamente differenti da paese a paese, che peraltro conferiscono un diverso grado d’importanza alla qualità dei beni prodotti. Sul piano politico, coesistono in Europa due pulsioni: la volontà di allargare il libero mercato e quella di proteggere le produzioni locali. La lacuna principale riguarda dunque l’assenza di princìpi fondamentali che possano garantire un equilibrio, essendo la normativa fortemente sbilanciata verso l’incentivo alla concorrenza, senza tener conto delle esternalità negative che alcuni paesi, in primis l’Italia, si trovano ad affrontare.

La protezione del mercato: i vincoli su qualità e prodotti intermedi. L’Unione europea, nonostante numerosi tentativi legislativi iniziati a partire dagli anni Settanta, non è ancora riuscita a determinare regole certe per questa materia. I termini “qualità” e “provenienza” rimangono concetti confusi, citati all’interno di regolamenti e direttive senza una vera e propria attribuzione di significato univoco. La scelta di non intervenire con decisione non è certo casuale, ma va inquadrata nel più ampio spettro delle norme a difesa della concorrenza e in particolare del libero scambio delle merci. L’attribuzione di uno status “speciale” per alcuni prodotti locali, infatti, è considerata come un pericolo nei confronti del libero mercato, poiché chi è in grado di produrre un bene qualitativamente accettabile deve avere la libertà di immetterlo sul mercato alle stesse condizioni, indipendentemente dal luogo di origine. Unica eccezione all’impostazione non vincolante perseguita dalla legislazione comunitaria è la normativa in materia di prodotti geograficamente protetti. Secondo la normativa vigente, infatti, l’apposizione dei marchi Dop ed Igp richiede la certificazione della provenienza di tutte le materie prime impiegate, nonché la localizzazione del processo produttivo. Il risultato della latitanza legislativa, e quindi politica, è la lenta agonia dei prodotti di qualità e del Made in Italy, che soccombono di fronte al cambiamento dei metodi di produzione, in primis per quanto concerne la globalizzazione dell’approvvigionamento delle materie prime. Le istituzioni in tal senso si muovono con un ritardo ultra-decennale, mancando di considerare i profondi cambiamenti nella filiera produttiva territoriale.

La criminalità tra le pieghe della legislazione in materia agroalimentare. I vuoti normativi lasciati dalla legislazione nazionale e comunitaria costituiscono senza dubbio uno dei fattori principali in grado di favorire la presenza della criminalità organizzata tra le pieghe del ciclo produttivo agroalimentare. In primo luogo, l’assenza di regolamenti chiari in materia di origine, soprattutto nell’ambito dei beni primari, incentiva i produttori a trovare soluzioni di approvvigionamento a basso prezzo, salvo poi sfruttare l’apposizione di un marchio di riconoscimento “italiano”. In tal senso, la presenza della criminalità nei principali centri di scambio, in primis i porti, viene sfruttata per accaparrarsi le materie prime al prezzo più economico, utilizzando le conoscenze criminali per individuare i paesi con minori controlli e costi limitatissimi, spesso derivanti dall’impiego di manodopera malpagata. Il know-how in mano alla criminalità consente inoltre di facilitare lo spostamento all’estero delle attività produttive, attraverso lo sfruttamento delle reti internazionali e la conoscenza delle condizioni produttive, soprattutto in materia di lavoro. Non è certo possibile affermare che ogni delocalizzazione produttiva implichi un rapporto con la criminalità organizzata, ma alla luce dell’ambiguità legislativa il terreno diventa davvero fertile. Attività criminali sono anche le frodi in materia di etichette, in cui le mafie sono coinvolte in via indiretta. Nei casi più gravi, come lo scandalo della carne di cavallo, in cui si sospetta fossero stati addirittura utilizzati ex animali da corsa trattati con sostanze dopanti, è difficile escludere un coinvolgimento della criminalità nel reperimento della materia prima.

Come operano le agromafie. Dalle denunce della Coldiretti alle cronache dei risultati delle operazioni delle Forze dell’ordine diffuse dalla stampa emerge la gravità del fenomeno delle agromafie che penalizza le imprese e reca danni alla salute dei consumatori. Le tipologie dei reati commessi in questo àmbito sono molteplici: dai furti di mezzi agricoli alle macellazioni clandestine o al danneggiamento di colture, sino alle truffe commerciali e quelle a danno dell’Unione europea, realizzando un giro d’affari illeciti da Nord a Sud. Le organizzazioni criminali sfruttano consapevolmente le difficoltà finanziarie delle imprese agricole, dando origine a fenomeni di estorsione, determinando l’aumento dei prezzi dei beni di consumo, rafforzando il proprio ruolo nel territorio e collocandosi come intermediari tra la produzione e il consumo dei prodotti.

L’attività mafiosa esprime una vasta gamma di reati: usura, racket estorsivo, furti di attrezzature e mezzi agricoli, abigeato, macellazioni clandestine, danneggiamento delle colture, contraffazione e agropirateria, abusivismo edilizio, saccheggio del patrimonio boschivo, caporalato, truffe ai danni dell’Unione europea. Eurispes e Coldiretti stimano che il volume d’affari complessivo dell’agromafia sia quantificabile in circa 14 miliardi di euro: solo due anni fa questa cifra si attestava intorno ai 12,5 miliardi.

Che cosa si dovrebbe fare. L’Italia ancora oggi non si distingue per un sistema penale in grado di affrontare con strumenti adeguati i reati che, rispetto alla pericolosità di altri crimini, appaiono di gravità minore. Pertanto, per quanto riguarda gli illeciti riscontrati nel settore agroalimentare, solo laddove è possibile contestare anche il reato di associazione per delinquere, si procede con misure cautelari di rilievo; mentre per altri reati come quello di sofisticazione, non essendo riferiti alla mafia nel Codice penale, hanno brevissimi tempi di prescrizione. Le organizzazioni criminali, dall’importazione dei prodotti agroalimentari alle successive operazioni di trasformazione, distribuzione e vendita, ampliano la propria attività anche a causa dell’inadeguatezza del sistema dei controlli che presenta alcune debolezze nelle modalità di intervento delle indagini. Appare quanto mai opportuna l’esigenza di lavorare sulle normative, aumentare le ispezioni, inasprire le sanzioni e le pene, al fine di garantire la trasparenza e la sicurezza in tutti i passaggi della filiera: i controlli rigorosi sono ancora più necessari sui prodotti importati dai Paesi terzi che attuano metodi di produzione biologica non equivalenti a quelli italiani, prestando maggiore considerazione alle autorizzazioni e ai certificati di conformità degli importatori. Sarebbe poi proficuo valorizzare l’esperienza maturata negli anni da quei magistrati che, avendo lavorato a lungo nel contrasto dei crimini agroalimentari, hanno acquisito un’ampia conoscenza dei nuclei problematici, delle criticità specifiche e delle più efficaci forme di contrasto. È necessario sottoporre costantemente il problema dei crimini alimentari all’opinione pubblica, in modo tale da sensibilizzare ed “educare” i consumatori a prestare attenzione alla scelta dei prodotti da inserire nel carrello della spesa: si potrebbe favorire la circolazione della conoscenza dei processi produttivi, ponendo l’accento sull’importanza di prendere in considerazione l’origine dei prodotti, le modalità di produzione e di conservazione degli alimenti. La sicurezza alimentare si tutela anche incoraggiando la realizzazione di etichette più chiare, seguendo un codice unico almeno nel mercato comunitario; si potrebbe poi costruire un filo diretto tra consumatori e Istituzioni, magari attraverso uno sportello dedicato. Sarebbe infine opportuno coinvolgere tutti i soggetti che, a vario titolo, lavorano nella produzione del Made in Italy e che possono partecipare attivamente allo sviluppo del settore e, di riflesso, dell’intero Paese.

Fonte: www.eurispes.eu

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